di Francesca Ferrante

Pochi giorni fa a Crema una donna con disturbi psichici è fuggita da una struttura di accoglienza. Si è cosparsa di benzina e data fuoco. Un uomo alla guida della sua auto è sceso prontamente dal suo mezzo per soccorrere la poveretta, che è poi deceduta. 

Più o meno negli stessi giorni, un turista austriaco in visita a Roma alla Galleria Borghese ha danneggiato la statua che il Canova nel 1808 dedicò a Paolina Borghese. Un’opera  d’arte  di incommensurabile valore storico e artistico. Ormai circolano ovunque video  che lo riprendono mentre si sdraia senza ritegno sul marmo e incespicando nel rialzarsi, danneggia le dita di un piede della statua. 

Si guarda attorno e, credendo di non essere stato ripreso e rimasto impunito, si avvia verso l’uscita più che tranquillo. 

In fondo se non c’è corpo non c’è reato....

Sembrano due accadimenti diversi per contesti e fatti.

Eppure non è così. 

Perché la storia di Crema ha dei risvolti agghiaccianti che vanno oltre le solite domande che ci poniamo sulla riforma Basaglia e gli ospedali psichiatrici. Talmente preoccupanti che anche il primo cittadino della città ha lanciato un allarmato ‘che cosa siamo diventati??’

Dunque l’illuminato Basaglia non c’entra con questo suicidio, né il danneggiamento della statua di Paolina ha attinenza con la carenza di vigilanti nei nostri musei o l’opportunità di transennare sculture così preziose o con la mancanza di cultura artistica o con lo spazio dedicato alla formazione civica.

A mio parere non sono le giuste risposte.

Quelle che ci servono, sono altrove e più complesse, perché affondano in quella parte oscura dell’animo collettivo, da decenni quasi indisturbata.

Quella lenta e inesorabile assuefazione all’indecenza, quel progressivo spostamento dell’asticella del lecito che, se non avesse messo solide e robuste radici, avrebbe certamente evitato quel triste suicidio e le falangi del piede della nostra Paolina sarebbero ancor adesso al proprio posto. 

Perché tutti pensiamo che la poveretta non sarebbe morta se quel manipolo di persone che assisteva alla scena l’avesse aiutata, invece di firmarla mentre bruciava e la gamba della scultura, se quel turista austriaco in compagnia della consorte invece di farsi un selfie SULLA statua, l’avesse solo ammirata nel suo splendore e in rispettoso silenzio, avrebbe conservato la sua intonsa perfezione.

Oggi sono qui a chiedermi se questi due accadimenti non siano un sintomo più serio. 

In realtà lo sono eccome...

Quando furono lanciati i primi video games verso la fine degli anni ottanta, quelli violenti in cui se non commettevi stragi di civili non passavi al livello successivo, vi erano frotte di genitori ansiosi e migliaia di psicologi preoccupati. Bambini di ogni età passavano ore davanti agli schermi, ipnotizzati e catturati dalla possibilità di compiere uccisioni a catena, senza commettere alcun danno. Si domandavano se la violenza gratuita, seppur virtuale, nel lungo periodo ci avrebbe anestetizzato al male, al dolore altrui. Ma è il progresso...le magnifiche sorti e progressive di Leopardi! Che vogliamo farci?!!?

La domanda sulla bocca di tutti era se in poco tempo avremmo fatto una tale confusione da perdere l’umanità, quali sarebbero state le conseguenze...che, in realtà, non tardarono ad arrivare.

Il quesito è se oggi lo schermo del nostro smartphone metta al riparo la nostra coscienza dall’abbruttimento; se un selfie ci salverà o sarà la strada più facile per la perdizione; se tutta questa attenzione per l’esteriorita’ non stia demolendo l’interiorita’.

Certamente non dovrebbe, ma così è. 

Perché è sotto gli occhi di tutti, ‘il common sense’ dell’uomo medio, cresciuto a social media e reality show, si sta inesorabilmente imputridendo, portando con sé anche un’intera generazione di figli adolescenti. 

Un tale livello di degrado che davanti alle tragedie umane o stigmatizza o fotografa. 

Per cinque minuti di celebrità, medio man si è venduto l’anima (e aggiungo anche la coscienza).

E non ci consola prendere atto che c’è gente che, per una propria foto spiritosa, danneggia un capolavoro o ci rimette addirittura la vita. 

Quando ho collegato questi due fatti, mi sono tornate alla mente una lunga serie di immagini sconcertanti.

I selfie in gita ad Auschwitz. 

Ragazzini sorridenti davanti alle bacheche del dolore o a i forni crematori. 

Soldati che a Guantanamo si scattavano foto felici accanto a prigionieri torturati. Infermiere che sorridono vicino alle salme di anziani pazienti. 

Gente che esulta sui social per l’annegamento del profugo di turno.

Puniamoli! Che vadano alla corte marziale! Licenziamole! 

Una toppa per coprire un abisso. 

Ma la banalità del male resta lì sorridente e soddisfatta. 

E mi spaventa perché diffusa. E mi terrorizza perché è sempre più ampia. 

Penso spesso che ancora oggi non abbiamo dissipato il mistero dell’Olocausto. Ancora cerchiamo spiegazioni plausibili alla perfetta e condivisa macchina di distruzione germanica che nella seconda guerra mondiale mandò ai crematori oltre sei milioni di ebrei, di rom e di omosessuali. Paralizza pensare che le guide di tale distruzione fossero persone ordinarie, del tutto ‘normali’. 

Si può compiere il male senza malvagità? 

Hannah Arendt cercò di rispondervi mentre seguiva il processo ad Adolf Eichmann.

La Arendt trasse una conclusione brillante: Eichmann era un uomo orribile, senza cattive intenzioni. Un burocrate senza morale ne’ coscienza. 

E lei ne era talmente convinta, da scrivere: ‘Restai colpita dalla evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause o di motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco o mostruoso.”

Una banalità del male, come la definì, che ci impone di rimettere le ‘cose’ a posto, affinché queste storie di ordinaria quotidianità di un’Italia di fine luglio, di tranquilla gente di provincia non restino una consuetudine. 

Abbiamo la responsabilità di aggiustare le vele, per combattere la tendenza a ‘muoversi dove va il vento’. 

Potrebbe essere proprio il tassello da cui ripartire per un nuovo umanesimo della tecnologia in questo affascinante mondo globalizzato in cui tutto appare sincronizzato ed efficiente, ma nulla funziona davvero. 

Un Rinascimento dell’umanità che rinasca dall’amore per il prossimo, dal rispetto per la vita, dalla totale custodia dell’ambiente che ci circonda.

11-08-2020
Autore: Francesca Ferrante
Insegnante
meridianoitalia.tv

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