di Maurizio Gentilini

Centocinquanta anni - il 20 settembre 1870 – le truppe piemontesi occupavano la città di Roma, destinata a diventare capitale del neonato Regno d’Italia. Un evento cardine per la storia risorgimentale e per il complesso processo unitario nazionale che, a livello politico e diplomatico, decretò anche il tramonto della sovranità su Roma e dell’esercizio del potere temporale da parte della Chiesa cattolica e dei papi, nonché l’apertura di un lungo conflitto tra la Santa Sede e lo Stato italiano.

Un dissidio che sarebbe durato molti decenni (almeno 6) e che è passato sotto il nome di “questione romana”. La “questione” era già stata posta nel 1848, in occasione del fallito tentativo mazziniano della Repubblica romana, e riproposta nel 1859-60, con le annessioni territoriali che avevano creato il Regno d’Italia sotto la guida della monarchia sabauda. La strenua opposizione di Pio IX (sostenuto dalla Francia) aveva vanificato gli sforzi di Cavour di risolvere pacificamente la controversia a proposito del ruolo di Roma come capitale (ruolo assunto provvisoriamente prima da Torino e poi da Firenze). L’occupazione dell’Urbe da parte delle truppe italiane (favorita dalla sconfitta francese a Sedan contro la Prussia, che segnò le sorti delle nazioni coinvolte e le dinamiche della storia europea) permise, nel giro di pochi mesi, il trasferimento in riva al Tevere della corte di Vittorio Emanuele II e del governo.

Il Papa – la cui autorevolezza spirituale era stata rinvigorita con il dogma dell’infallibilità, stabilito dal Concilio Vaticano I celebrato in quell’anno - si ritirò in Vaticano, opponendosi al riconoscimento della nuova situazione istituzionale e dichiarandosi prigioniero politico. Identico atteggiamento venne tenuto nei confronti della “legge delle guarentigie”, promulgata dall’Italia nel 1871 per definire e regolare i rapporti tra Stato e Chiesa. La partecipazione alla vita pubblica e all’impegno politico dei cattolici nel contesto nazionale italiano venne limitata e impedita dalla disposizione pontificia nota come non expedit (non è conveniente). Un divieto che accompagnò la storia nazionale fino all’epoca della I guerra mondiale, condizionando il coinvolgimento nelle scelte politiche e nell’amministrazione di ampi strati della popolazione, inibendo il possibile contributo di idee e il protagonismo del pensiero sociale originato o informato dai principi del cristianesimo, e impoverendo così le basi di consenso del nuovo Stato nazionale.
L’espressione di Charles de Montalembert “Libera Chiesa in libero Stato”, fatta propria e ripresa più volte e pubblicamente da Cavour, divenne un principio dell’impostazione politica e di governo dell’Italia liberale e un motto – consacrato dalla pubblicistica e dal linguaggio storiografico – capace di rendere l’essenza della questione romana rispetto alla situazione determinata dalla costituzione e dallo sviluppo del Regno d’Italia.
Solo l’evoluzione della situazione politica interna (soprattutto in relazione all’avanzata delle forze socialiste) e una serie di contingenze legate alla gestione dei governi presieduti da Giovanni Giolitti indusse la Chiesa ad assumere un atteggiamento meno intransigente, che culminò nel 1913 con il cosiddetto “patto Gentiloni”, in virtù del quale il partito liberale maggioritario mise a disposizione una nutrita quantità di seggi alle elezioni politiche per i candidati cattolici. Una tappa del tortuoso cammino che aveva portato la Chiesa e i suoi capi (in particolare Pio X) ad assumere un atteggiamento di opposizione intransigente nei confronti del mondo moderno, di principi come quello della laicità dello stato e di strenua difesa delle prerogative (e dei privilegi) delle istituzioni ecclesiastiche nei confronti dei movimenti di matrice liberale e del processo risorgimentale.
La particolare situazione della Chiesa rispetto allo Stato in Italia (e la relativa indipendenza e autonomia della prima), favorì tuttavia una forte evoluzione della riflessione ecclesiale in merito alla questione sociale e alla elaborazione di una articolata dottrina sul tema (in parte riassunta dall’enciclica Rerum novarum di Leone XIII, promulgata nel 1891); altrettanto autorevole la proposizione di un pensiero e di pronunciamenti magisteriali a proposito della pace e delle relazioni tra popoli e nazioni (esposto in varie forme prima, durante e dopo la I guerra mondiale da Benedetto XV).
Una sistemazione formale e (all’apparenza) definitiva dei rapporti tra Stato italiano e Santa Sede si realizzò solo in epoca fascista, con i patti firmati in Laterano l’11 febbraio 1929. Questi erano costituiti da un Trattato che sanciva la nascita dello Stato della Città del Vaticano, da un Concordato e da una Convenzione finanziaria. Il Trattato riconosceva allo SCV "l’assoluta e visibile indipendenza” e gli garantiva “una sovranità indiscutibile pur nel campo internazionale". Con questo atto diplomatico con cui l’Italia cedeva (non senza una buona dose di opportunismo politico e di ricerca di consenso) alla Santa Sede la sovranità sul suo piccolo territorio, garantiva al nuovo Stato la più completa libertà da ogni ingerenza e al papa l'indipendenza assoluta come capo spirituale del cattolicesimo, si chiudeva la cosiddetta “questione romana”.
Al tempo della firma dei Patti lateranensi, Alcide De Gasperi viveva emarginato dalla vita politica a causa della sua opposizione al regime e costretto a un umile e precario lavoro presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. L’ex deputato e segretario del Partito popolare italiano (e futuro protagonista della ricostruzione dell’Italia del secondo dopoguerra) non rinunciò tuttavia a esprimere il proprio pensiero su quell’evento, affidandolo ad alcune lettere indirizzate a pochi amici fidati. Dal suo particolare osservatorio, De Gasperi seguì e valutò in tutta la loro complessità gli accordi, cercando di esaminarne gli elementi negativi e quelli positivi, i riflessi politici ed ecclesiali, i commenti suscitati in Italia e all’estero. Nelle lettere fornì un articolato giudizio sull’accordo: non valutò negativamente il Trattato, tanto da definirlo come un fondamentale traguardo raggiunto dal cattolicesimo italiano; manifestò invece una profonda preoccupazione circa il Concordato, sulla cosiddetta “politica concordataria” e le posizioni di molti ambienti cattolici. Da un punto di vista puramente politico, la soluzione della questione romana ed i vantaggi concessi alla Chiesa dallo Stato italiano rappresentavano un’occasione che la Santa Sede non poteva lasciarsi sfuggire. A Mussolini che – secondo un’immagine usata in una lettera all’amico trentino Simone Weber – bussava alla porta di bronzo, il Papa non avrebbe potuto non aprire; la conclusione vista in Italia come un successo del regime, nella storia e nel mondo sarebbe stata una liberazione per la Chiesa e una fortuna per la nazione italiana. A queste valutazioni De Gasperi aggiunse alcuni riferimenti circa il clima in cui vennero celebrati i patti, avvertendo il pericolo di una compromissione del principio di laicità della politica e dello stato, temendo che “non si distinguesse più fra cattolicesimo e fascismo”, specialmente dopo lo scioglimento dei partiti e dei sindacati e dopo l’approvazione delle “leggi fascistissime”. Un’analisi che si sarebbe presto dimostrata estremamente lucida, equilibrata e preveggente.

20-09-2020
Autore: Maurizio Gentilini
Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)
meridianoitalia.tv

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