di Fausta Speranza
L’eredità del Papa “venuto dalla fine del mondo”, pur tra immaginabili riassestamenti, resterà per quello che vale di più: la focalizzazione su una Chiesa “popolo in cammino”, che procede servendo Dio e l’umanità “in uscita” verso il mondo.
Sotto lo stesso cielo. Papa Francesco, che ci ha lasciato il 21 aprile 2025 dopo il giorno più importante dell’anno liturgico, la Pasqua, e nel giorno in cui si celebra l'Angelo cherubino che annunciò davanti al sepolcro la Risurrezione di Dio, si era presentato dalla Loggia di San Pietro il 13 marzo del 2013usando questa espressione figlia del Concilio Vaticano II: “La Chiesa è il popolo di Dio in cammino”. Abbiamo compreso in quel momento, e il suo pontificato ne è stata una conferma, che il Papa che aveva scelto il nome del santo di Assisi intendeva riproporre con convinzione i documenti dell’ultima assise conciliare. Giovanni Paolo II hadefinito il Concilio “la più grande grazia del XX secolo”. Papa Francesco ha cercato di far attingere sempre più la Chiesa ai frutti migliori di tale grazia, a partire dall’idea di Chiesa: non chiusa o ripiegata, ma aperta; non fissa, ma in movimento; non concentrata sul catechismo, ma sul Vangelo. E non è poca la differenza. Il cristianesimo non è religione di precetti. E’ religione di responsabilità, grande: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Nella imperfezione di questo mondo, Papa Francesco ha focalizzato il suo magistero innanzitutto su questa responsabilità con una dedizione che il mondo ha avvertito.
A raccontare in estrema sintesi chi sia stato Papa Francesco ci sono poi i due temi scelti per gi anni giubilari. Il primo, il Giubileo straordinario della Misericordia nel 2015, ci continua a proporre di ripartire da lì: dall’amore di Dio che non impone precetti ma nell’abbraccio della sua misericordia ti volge al Bene. Il Giubileo della Speranza, in corso, rappresenta forse l’eredità più concreta da vivere: quella di riscoprire lafede nella Risurrezione, che è la porta apertaalla piena partecipazione alla vita di Dio, affrontando con cristiana speranza le terribili sfide di un mondo che scivola nella conflittualità più aspra e nel delirio del “transumanesimo”.
Per l’ottimismo sono tempi davvero difficili. Per la speranza è il tempo suo: “Il deserto fiorirà”, dice la Bibbia perché la speranza cristiana non è semplice propensione a guardare la metà di bicchiere pieno anziché quella vuota, ma è la sfida di non rassegnarsi al deserto dell’anima, di rivendicare sempre la grandezza di Dio in Cielo e in questo mondo. Tra le tantissime parole di Papa Francesco che ricorderemo in questi giorni, non possono mancare quelle pronunciate al Giubileo degli Artisti a febbraio scorso: “La speranza non è mai scissa dal dramma dell’esistenza, attraversa la lotta quotidiana, le fatiche del vivere, le sfide di questo nostro tempo.” E’ molto chiaro e essenziale l’invito di Francesco: rimanere fedeli a questa speranza.
Chi spera sta nella dimensione di Dio in cui ieri, oggi, domani non hanno fratture e in cui non hanno spazio le logiche di potere che troppo spesso invece toccano la Chiesa. Chi spera è nella dimensione ecclesiale della Comunione che non è ideologia, anche se nella dimensione umana coesistono continuità e specificità. La continuità è evidente nei moniti dei Papi del Novecento e di questo secolo contro la guerra: tutti hanno lanciato accorati inequivocabili appelli alla pace. Quelli di Papa Francesco si collocanotra questi e siamo certi che anche il prossimo Papa lo ribadirà. Ora questo è l’essenziale da non offuscare.
Tra le specificità, a proposito di Papa Francesco resteranno i “cantieri” delle riforme avviate in Vaticano, alcuni gesti non usuali per un Papa, un uso spontaneo quanto “disordinato” dei media, accenti severi ad intra quanto magnanimi ad extra, entusiasmi non ben ripagati per alcune personalità intervallati da momenti in cui è apparso al mondo in profonda solitudine. Ma non è qui il messaggio del pontificato di Francesco. La ricchezza sta nella responsabilità che si è assunto: cercare di mettere in pratica, senza paura di sporcarsi le mani o fare errori, i propositi del Concilio Vaticano II di una Chiesa all’altezza dei tempi “affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo”, come affermava la Costituzione dogmatica Lumen Gentium del 1964. Una Chiesa che in quegli anni Paolo VI definiva con un’espressione sorprendente “esperta di umanità” e che Papa Francesco voleva “ospedale da campo”.
Nel Documento sulla fratellanza umana, che Papa Francesco ha firmato con il Grande Imam di Al-Azhar Ahmed Al-Tavveb il 4 febbraio 2019, si comprende la sua idea di responsabilità: “La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere”. Una responsabilità alla quale peraltro ha dedicato due Encicliche: Laudato Sì e Fratelli tutti. Ma in quel documento c’erano anche due punti fermi indispensabili per le società tutte: rispetto per le donne e promozione o difesa del diritto di cittadinanza. Due punti di cui comprenderemo sempre meglio l’urgenza in tema di responsabilità, in un tempo in cui l’intera architrave dei diritti umani fondamentali è sotto attacco e in cui le moderne forme di rapacità economica minano il valore della persona a favore del concetto di individuo.
I sussulti negli ultimi decenni non sono mancati e sarà impegnativo riprendere la guida della barca di Pietro. La Chiesa non sussulta solo per i movimenti di un Papa, ma per quelli dei tempi e quelli di tutto “il popolo di Dio in cammino”. Il cammino prosegue. Restano e anzi aumentano le povertà materiali di cui Papa Francesco si è tanto occupato. Ma restano anche le voragini di povertà culturali e spirituali di cui occuparsi. Ognuno si prenda la sua responsabilità.