di Paolo Balduzzi

Nel 1919, un giovane economista inglese, delegato del governo britannico alla Conferenza di Versailles, si faceva conoscere e notare nel mondo con un libro dal titolo molto evocativo: “Le conseguenze economiche della pace”. Lo scrittore si chiamava John Maynard Keynes e in quell’opera aveva previsto, con drammatica precisione, che le umiliazioni economiche imposte alla Germania dopo la Prima guerra mondiale (oggi le chiameremmo “sanzioni”) avrebbero portato a un nuovo conflitto nel giro di un ventennio.

Sono passati esattamente cento anni e in Europa soffiano ancora venti di guerra. A differenza del 1919, tuttavia, ora il conflitto non è alla fine e, anzi, è appena iniziato. Finora la diplomazia sembra aver fallito: le nazioni europee stanno dunque introducendo sanzioni sempre più importanti con cui proveranno a indebolire il fronte russo.

Ma quali potrebbero essere, citando Keynes, le conseguenze economiche di questa strategia? Ad oggi, in questo conflitto così asimmetrico, le sanzioni sono l’unica arma utilizzata da Europa e Stati uniti, mentre la Russia, alle sue contro-sanzioni contro l’Europa, unisce anche l’invasione militare contro l’Ucraina. Cosa sta facendo, dunque, il vecchio continente?
Pochi giorni fa, alla vigilia dell’invasione russa, l’Unione europea ha raggiunto un accordo unanime su un primo pacchetto di sanzioni. Si conferma quindi la volontà di agire per gradi, smarcandosi dalla strategia americana, ma anche dalle richieste delle Repubbliche baltiche, di Olanda e di Polonia, di utilizzare sin da subito sanzioni molto dure. Le prime risposte, fino all’escalation degli eventi, erano state solo nazionali e squisitamente economiche.

La quota di commercio europeo con la Russia è di circa il 5%: non molto. Ma gran parte di questo commercio è composto da beni fondamentali e strategici.  A partire dalle fonti energetiche, che costituiscono forse il nervo più scoperto su entrambi i lati del conflitto. La Russia rappresenta circa il 36% delle importazioni europee di gas dai paesi extra Ue. Per quanto riguarda il petrolio, invece, la Russia è il primo partner commerciale dell’Unione Europea, con una quota di mercato di circa il 25%. Nel giro di poche settimane, il prezzo del petrolio è salito a sfiorare i 100 dollari al barile mentre quello del gas ha superato gli 80 euro al megawattora. Per nazioni come Francia, Germania e Italia questo significa costi di produzione oggi – e prezzi domani – molto più elevati.

D’altro canto, rinunciare al gas russo per Mosca significherebbe tagliare gran parte degli introiti con cui, simbolicamente, vengono pagati i suoi soldati. In questo senso è da interpretare la mossa del neo-cancelliere tedesco Olaf Scholz che ha sospeso, ma non ancora opportunamente negato, l’apertura di North Stream 2, il nuovo gasdotto che dovrebbe portare il gas russo in Germania. Un’altra sanzione già introdotta, questa volta da Boris Johnson, premier britannico, è quella di congelare i beni detenuti nel Regno unito da alcuni oligarchi russi. Una strategia, quella delle sanzioni “ad personam”, già utilizzata in passato e che dovrebbe velocemente riguardare anche le principali banche russe. La prossima mossa potrebbe essere il blocco dell’export, vale a dire “affamare” la Russia tagliandole forniture strategiche, a partire da materie prime altamente tecnologiche.

Vale la pena di ricordare che oltre il 30% del commercio estero della Russia è proprio con L’Unione europea e proprio su questa tipologia di beni. Tuttavia, anche in questo caso, il conto da pagare rischia di essere salato per il nostro paese. Secondo alcune stime riferite a sanzioni e contro-sanzioni tra Russia ed Europa dopo la crisi della Crimea nel 2014, l’export italiano avrebbe perso circa 3,5 miliardi di euro in due anni. E, sempre a proposito di affamare, ma questa volta fuori di metafora, vale la pena di ricordare che l’Italia importa oltre il 60% del proprio fabbisogno di grano dall’estero, in buona parte proprio da Ucraina e Russia; per non parlare del mais, utilizzato invece per l’alimentazione animale. Il problema più grosso sembra però essere quello che, in Europa, le lezioni non vengono mai imparate fino in fondo. Le conseguenze economiche dell’ultima “pace”, cioè quella conseguente alla crisi della Crimea, non ci hanno insegnato a smarcarci da Mosca, in particolar modo per quanto riguarda la fornitura di fonti energetiche. Thomas Shelling, anch’egli economista e premio Nobel nel 2005, ha intuito che spesso nei conflitti la debolezza è forza: chi ha poco da perdere ha maggior potere strategico.

Al contrario, ancora oggi, l’Europa dalle mille voci ha economicamente molto da perdere, tanto da una guerra quanto dalla pace. Una lezione che, alla fine di questo periodo drammatico, sarebbe il caso di imparare

04-03-2022
Autore: Paolo Balduzzi
Docente di Economia pubblica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
meridianoitalia.tv

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