di Ranieri de Ferrante
L’accordo fra Israele ed Hamas riempie le pagine dei giornali ed i video di PC e TV. E’ un accordo fatto per stimolare ed eccitare l’opinione pubblica. E’ anche un accordo che ha relegato i veri nodi ad una ipotetica seconda Fase, su cui tutti vantano certezze, ma sulla quale, in realtà, certezze non ci sono. Al massimo speranze. E non si tratta di piccole cose: lo smantellamento di Hamas e la struttura a due Stati. E’ quello che succede quando i tempi necessari per ottenere un accordo completo, che significhi veramente pace non sono coerenti con l’avere un Nobel.
Gli accordi sono accordi, e le negoziazioni sono negoziazioni. Possono essere diversi gli argomenti, ed il peso delle decisioni, ma che si tratti della discussione fra due persone che devono spartirsi qualcosa, di due aziende che devono creare una Joint Venture o di due popoli che negoziano la pace, le geometrie e gli equilibri sono analoghi. E la cosa più pericolosa è quando, al tavolo dei negoziati, siede qualcuno di grande peso cui preme avere un risultato – qualsiasi – e rapidamente, anche se non necessariamente quello giusto.
Ricordo un caso, che ho seguito molto - troppo - da vicino, di un accordo fra due aziende per creare una Società comune. L’Amministratore Delegato di una delle due Parti – un grande Gruppo italiano – pur di vedere l’annuncio sulla Stampa accettò che la controparte potesse designare sia il CEO che il Chief Financial Officer, e che il sistema Contabile e di Gestione interna, ed anche la lingua, fossero quelli del Partner inglese. E perfino, anche se non per iscritto, che sulle sedi italiane sventolassero la nostra bandiera e quella inglese, su quelle di Oltremanica solo quella inglese.
Non passò molto prima che la JV andasse in crisi, e che i dirigenti italiani della Società scrivessero una lettera al Management del Gruppo, con copia al Presidente del Consiglio, lamentandosi dello sbilancio.
Ora il Mondo esulta per l’accordo fra Israele ed Hamas, e tanti politici si sbracciano in untuose congratulazioni. Io non posso che essere felice che la perdita di vite e le sofferenze (da entrambe le Parti) finiscano, ma, oltre questo umano sollievo, non riesco ad unirmi alla gioia prevalente.
Un mio problema formale e morale è che – a prescindere da tutto – parlare di accordo fra uno Stato Sovrano e democratico ed una banda di terroristi è improprio.
Un altro problema, ben più concreto, è che quello che era partito come un Ultimatum (“l’accordo va accettato com’è, nella sua interezza, e senza spazio per modifiche”, aveva dichiarato il Presidente americano) si è trasformato in una negoziazione da cui, in buona sostanza, Hammas esce molto meglio di quanto meriterebbe.
E da questa negoziazione segue il problema sostanziale.
Si è cercato il titolo sui giornali, in tempi brevi: l’assegnazione del Nobel per la Pace premeva, e questo Premio è un riconoscimento che Trump voleva e chiedeva senza alcuna vergogna. Mentre scrivo leggo che invece è andato a Maria Corina Machado: Dio, ed alcuni coraggiosi in Scandinavia hanno salvato questo storico Premio da quella che sarebbe stata solo una umiliante volgarizzazione peripatetica.
Nella fretta di chiudere, sono certo, non ha giocato alcun ruolo il risparmiare ulteriori sofferenze ai Palestinesi della Striscia o agli ostaggi!
E quanto rapidamente si voleva il beneficio di immagine! Il biglietto di Rubio a Trump (“fai un annuncio, così sei il primo a dirlo”) la dice lunga. Se non ci fosse da piangere verrebbe da ridere.
Per questa fretta si è invece rimandata ad una seconda Fase la parte sostantiva dell’accordo, cioè la sparizione di Hamas dalla scena militare e politica, condizione fondamentale per la sicurezza di Israele.
Viene anche lasciata nella nebbia la questione della creazione dello Stato Palestinese (Netanyahu la ha esplicitamente esclusa e Trump afferma di non avere alcuna idea o preferenza sulla cosa), che invece è condizione fondamentale per un rapporto finalmente corretto ed equilibrato fra due popoli che non cerchino la reciproca cancellazione ma delle vie – difficili quanto si vuole, perché anti decenni di odio non si cancellano facilmente – di convivenza.
Spero sinceramente che non si applichi la Legge di Murphy (“se qualcosa può andare male, succederà”) perchè la situazione offre immense opportunità di problemi in futuro, durante l’implementazione della Fase 1 e la discussione della Fase 2. Spero che le cose vadano come si desidera e che fra qualche mese Hamas sparisca dalla scena, il popolo Palestinese abbia una guida politica degna del palcoscenico mondiale e che Israele si sia liberata del Governo Netanyahu, con la sua coterie di ultranazionalismo e corruzione.
Ma ho più dubbi che speranze.
Non posso non osservare quanto – nella realtà – il passo fatto sia veramente piccolo: la seconda Fase è quella che conta, e se non andasse in porto, tornare alla casella di partenza sarebbe facilissimo. Basterebbe rapire una dozzina di israeliani o radere al suolo qualche isolato a Gaza.
Ma a tale casella si ritornerebbe con tanta acrimonia ed amarezza di più.
Acrimonia ed amarezza, morti e massacri cui, probabilmente, Trump assisterebbe senza sentire nulla, sognando di poter vedere – magari l’anno prossimo - un premio Nobel poggiato sul caminetto dorato dello Studio Ovale dorato, fra tende dorate, con il fuoco che disegna ombre sui suoi capelli tinti e sui suoi ritratti sulle pareti.
Un orpello fra gli orpelli. Un giocattolo fra i giocattoli di un vecchio egoista, puerile ed ignorante.