di Alfredo Battisti

Il 20-21 settembre gli Italiani saranno chiamati alle urne per confermare o meno la legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. Una riforma controversa portata avanti strenuamente dal Movimento 5 Stelle e che solo nell’ultima votazione alla Camera ha incassato il sostegno di tutti i gruppi parlamentari -anche quelli che nelle tre precedenti votazioni l’avevano osteggiata-.

Il referendum confermativo -richiesto da 71 senatori ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione- è ormai alle porte, eppure non vi è mai stato un serio dibattito sulle ragioni del SI e del NO. Certamente il Covid-19 ha spostato l’attenzione degli ultimi mesi su altre questioni, ma a fine febbraio -quando mancava un mese al referendum, inizialmente previsto per il 29 marzo, e la pandemia non era ancora giunta in Italia- l’informazione resa all’elettorato su questo importante appuntamento alle urne era decisamente scarsa, se non inesistente.

I dati degli ultimi sondaggi, che segnalano un’enorme fetta di elettorato che non sa di dover votare o non ha idea dell’argomento, sono particolarmente preoccupanti in quanto il referendum costituzionale non ha alcun quorum: basta un solo voto per confermare o respingere la legge costituzionale. Cioè ogni voto è preziosissimo.

La flebile campagna di informazione sul referendum -ammesso che ce ne sia stata una- certamente è stata riduttiva, approssimativa e marginale: inaccettabile quando è in ballo una modifica della Costituzione.

È bene dunque, con un tema così delicato come la Carta Costituzionale, condurre un’analisi oggettiva e essere critici nel senso etimologico del termine[1]: distinguere.

Il primo punto fondamentale da analizzare è che quella del referendum non è una semplice questione di numeri. Il problema -prima che dei 630 o 400 deputati, dei 315 o 200 senatori- è un problema di linguaggio.

Dovremmo sempre ricordare che un linguaggio improprio riesce a modificare il significato dei concetti che veicola. «Quando se ne fa un uso sciatto o se ne manipolano deliberatamente i significati, l'effetto è il logoramento e la perdita di senso. Se questo accade, è necessario sottoporre le parole a una manutenzione attenta, ripristinare la loro forza originaria»[2].

Semplicemente è necessario manomettere le parole, applicando loro la manumissio del diritto romano: «Noi facciamo a pezzi le parole (le manomettiamo, nel senso di alterarle, violarle) e poi le rimontiamo (le manomettiamo nel senso di liberarle dai vincoli delle convinzioni verbali e dei non significati)»[3].

È questo il cuore della questione, non linguistica ma tremendamente concreta: la chiave di volta per comprendere il quesito referendario nella sua oggettività, sgombrando il campo da opachi leitmotiv politici. Così che, non si parla più di «poltrone» ma di scranni, non di «casta» ma di parlamentari.

Non c’è dubbio che sia capitato -ahimè non raramente- di vedere i nostri rappresentanti in Parlamento comportarsi in modo disdicevole. Certamente almeno una volta abbiamo pensato a quella carica come una posizione elitaria (una «casta» appunto) il cui scopo fosse quello di curare i propri interessi e accrescere il proprio potere (la «poltrona»). Diverse volte -purtroppo- è capitato di pensare alle Camere come ad un covo di ladri e corrotti, non a servizio del popolo ma schiavi del potere. Ma troppo spesso abbiamo confuso il contenitore con il contenuto.

A ben pensarci, infatti, in questi anni un perdurante senso di sfiducia ci ha portato a confondere irrimediabilmente due categorie ben distinte tra loro: la politica e le istituzioni.

Infatti, la nostra rabbia è contro quel tipo di parlamentari corrotti, avidi, assetati di potere, e non contro la figura istituzionale del parlamentare. La nostra protesta è -e deve essere- contro quella cattiva politica che ricopre le istituzioni -come un vestito copre un manichino-, ma di sicuro non è contro le istituzioni della Repubblica.

Ci farebbe bene ricordare che su quegli scranni hanno seduto politici come De Gasperi, Moro, Togliatti, Pertini, Berlinguer -per citarne solo alcuni tra i più noti- e di certo loro non li avremmo mai definiti «casta» o «poltronari». Ma ora le stesse istituzioni sono ricoperte da uomini e donne che -per usare un eufemismo- non godono di stima per le proprie doti morali presso l’elettorato.

Ma con questo referendum vogliamo colpire la cattiva politica o le istituzioni?

È questa sia la domanda cruciale per scegliere come votare in assoluta libertà e consapevolezza. Perché rischiamo di voler fare una cosa, ma ritrovarci a farne un’altra.

Molti voteranno SI per avere un Parlamento più agile e dei parlamentari di maggiore qualità: obiettivi anche giusti e desiderabili, ma che probabilmente non conseguiremo con questa riforma.

  • Il funzionamento delle Camere segue un certo iter e ridurre il numero dei parlamentari non riuscirà ad incidere in modo determinante sulle lungaggini legislative. Forse sarebbe stata una strada migliore -meno eclatante ma più efficace- modificare i Regolamenti parlamentari per snellire il processo di legificazione. Inoltre c’è il serio rischio che senza tali modifiche, un numero più esiguo di parlamentari debba far fronte alla stessa mole di lavoro prevista per un Parlamento più grande, finendo paradossalmente per allungare i tempi.
  • La qualità degli eletti aumenterà davvero?

Con un numero inferiore di parlamentari, è possibile che si apra uno scenario opposto: i partiti candideranno i più “fedeli” al capo. E se ragionassimo con il paradigma populista politico=ladro&corrotto, ne conseguirebbero due Camere piene zeppe della migliore criminalità.

Questioni più strutturate sono quelle del risparmio e della rappresentatività.

  • La lontananza dal popolo (la rappresentatività minore) è una controindicazione di questa riforma.

Dobbiamo ricordare che il numero fisso di parlamentari fu introdotto solo nel 1963, in quanto nel testo originario della Costituzione vigeva una criterio di proporzionalità: un deputato ogni ottantamila abitanti. Con il crescere della popolazione oggi siamo a quota uno ogni novantacinquemila; con il «taglio dei parlamentari» arriveremo a un deputato ogni centocinquantamila abitanti. Ciò vuol dire che gli eletti saranno inevitabilmente più distanti dalle realtà e dai problemi degli elettori. Soprattutto, molti territori rimarranno sprovvisti di rappresentanza in Parlamento, cioè senza chi porterà a Roma i problemi di quella comunità.

Dall’altro lato non è neppure vero che con la riduzione del numero dei parlamentari è in ballo la tenuta democratica dell’Italia. Da un confronto[4] con altri Paesi emerge che ove la rappresentatività è inferiore alla nostra non si scalfisce automaticamente il principio democratico.

  • Il risparmio derivante dalla riduzione dei parlamentari è un punto controverso.

Al di là delle cifre sbandierate dai sostenitori del SI o del NO, l’Osservatorio Conti Pubblici Italiani ha calcolato un risparmio di 82 milioni lordi annui. Tuttavia, dato che anche i parlamentari pagano le tasse, l’Osservatorio segna un risparmio netto di 57 milioni all’anno[5].

Concretamente il risparmio è irrisorio: ogni italiano risparmierà meno di un caffè all’anno, pari allo 0,007% della spesa pubblica.

Il fronte del NO sottolinea l’assurdità del «taglio» per tali cifre -considerando che, ad esempio, per il bonus monopattini si siano stanziati ben 200 milioni-, proponendo invece una diminuzione degli stipendi dei parlamentari, ad oggi invariati anche se la riforma passasse. D’altro canto il SI ritiene che questo risparmio, seppur piccolo, possa comunque contribuire positivamente al riassetto della spesa pubblica e diventare il precursore di ulteriori riforme.

Per concludere tale analisi -che non ha alcuna pretesa di completezza- si eviterà lo sgarbo di suggerire al lettore come votare. Il voto giusto lo sceglierà ognuno nel segreto della cabina elettorale. L’obiettivo è semplicemente spronare il lettore-elettore a interrogarsi, ad approfondire le ragioni e le questioni celate dietro ai numeri e alle parole -spesso usate impropriamente-.

In breve, se ciò che ci spinge a votare SI è una desiderata diminuzione del numero dei parlamentari, allora quella sarà la scelta giusta.

Ma se l’obiettivo è votare SI per colpire la «casta», «le poltrone» e i corrotti, allora è bene riflettere se il nostro voto porta a quanto vogliamo: sarebbe forse come colpire il muro delle istituzioni per buttare giù lo sporco intonaco della cattiva politica che le riveste. Magari un domani avremo politici della portata di La Pira o della Iotti, e non avremo uno scranno da assegnare loro per risollevare questo Paese.

Buon voto, consapevole.

 

[1] Dizionario Etimologico, IDEALibri, 2004. Voce critico: «Dal greco kritiko, derivato di krinein (=giudicare, distinguere)».

[2] Carofiglio G., La manomissione delle parole, Rizzoli, 2010

[3] Carofiglio G., Ragionevoli dubbi, Sellerio editore Palermo, 2006

[4] Per un confronto corretto con gli altri Stati bisogna considerare non il numero di parlamentari bensì la rappresentatività di ciascuno di essi, escludendo anche gli Stati di natura federale che presentano un doppio Parlamento (statale e federale).

[5] Osservatorio Conti Pubblici Italiani, Quanto si risparmia davvero con il taglio del numero dei parlamentari

04-09-2020
Autore: Alfredo Battisti
Studente universitario
meridianoitalia.tv

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