di Klarida Rrapaj
Milano si è svegliata sconvolta da una notizia che tocca le corde più profonde della coscienza collettiva.
Luciana Ronchi, 62 anni, è morta dopo essere stata accoltellata dal suo ex marito, Luigi Morcaldi, davanti alla sua abitazione.
Una storia drammatica, ma purtroppo non isolata.
Dietro questo gesto estremo non c’è solo la rabbia di un uomo, ma una dinamica psicologica complessa che inizia molto prima della violenza.
Come psicologa, criminologa e vittimologa, credo sia fondamentale comprendere cosa accade nella mente di chi non riesce ad accettare la fine di una relazione.
La separazione, per molti, è un momento di dolore, di riorganizzazione, di perdita.
Ma per alcune personalità più fragili o rigide, diventa una ferita narcisistica insopportabile, la perdita del controllo, del ruolo, dell’idea di sé come “padrone della storia”.
Quando una persona non accetta la separazione, tende a trasformare il dolore in possessione, e il sentimento in dominio.
Quel “la casa è mia”, gridato secondo i testimoni davanti al portone, non riguarda soltanto un bene materiale, è la voce distorta di chi ritiene di avere ancora un diritto sulla vita dell’altro.
Spesso, prima di un gesto così estremo, ci sono segnali chiari ma sottovalutati, appostamenti, pedinamenti, telefonate insistenti, insulti, minacce velate.
Molti li scambiano per eccessi di gelosia, ma la gelosia non è amore.
È controllo, è bisogno di possesso, è paura di perdere il potere sull’altro.
E ogni volta che questi comportamenti si ripetono, si rafforza un’escalation che può sfociare nella tragedia.
Luciana, come tante altre donne, non risulta avesse sporto denuncia.
Ed è qui che si apre un altro capitolo doloroso.
Molte vittime non denunciano non perché non capiscano il pericolo, ma perché sono stanche, impaurite, confuse, o convinte che “non servirà a nulla”.
Il silenzio, però, diventa la condanna più pesante.
E il sistema, se non è in grado di intercettare i segnali prima, arriva sempre troppo tardi.
Questa vicenda ci ricorda che la violenza non nasce mai all’improvviso.
È un processo che si costruisce nel tempo, alimentato da dipendenza emotiva, fragilità personali e da una cultura che ancora oggi, in alcune menti, confonde l’amore con il possesso.
L’omicidio di Luciana non è solo un fatto di cronaca, ma uno specchio che ci obbliga a guardare dentro la società, le relazioni e il modo in cui educhiamo al rispetto.

Chi vede, chi sente, chi sospetta amici, vicini, colleghi ha un ruolo decisivo.
Ogni appostamento, ogni minaccia, ogni atteggiamento persecutorio va riconosciuto, nominato e segnalato.
Perché nessuna separazione dovrebbe trasformarsi in condanna, e nessuna donna dovrebbe pagare con la vita la scelta di riprendersi la propria libertà.
Riconoscere i segnali, chiedere aiuto, rompere il silenzio, sono gesti che salvano vite.
Luciana Ronchi non potrà più farlo, ma ognuno di noi può fare in modo che la sua storia non venga dimenticata.
