di Laura Caldara

«Si addormentò mormorando fra sé: “L’integrità mentale non ha alcun rapporto con la statistica”», scrive George Orwell, con le parole di Winston, e aggiunge: «… con la sensazione che in questa frase si celasse una profonda saggezza» Un romanzo distopico, “1984”, che descrive, in buona parte, l’atmosfera che stiamo vivendo in piena pandemia da Covid19.

Quando le parole non corrispondono alle cose, la confusione si annida nelle nostre menti e il pensiero agonizza.

Guardiamo in faccia la realtà: l’intera esperienza dell’epidemia ha provocato inevitabili reazioni di adattamento ed una serie complessa di risposte psicologiche. Preoccupazione per il contagio, incertezza della durata della pandemia, limitazioni della nostra libertà, isolamento sociale, difficoltà economiche, un rischio ed un’incidenza così elevata di situazioni di intensa sofferenza emotiva e psicologica da creare caos e disagi che non possono più essere sottovalutati.

L’esperienza dell’epidemia rappresenta una reale condizione di stress. Questo ha fatto nascere l’esigenza di dare una risposta alle diverse tipologie di disagio psicologico e malessere psico-fisico.

L’Italia è tra i paesi del mondo più colpiti da stress da Covid19: a pronunciarlo uno studio Axa, secondo il quale il 51% della popolazione ha risentito di un forte disagio psicologico. Se si pensa che lo stress da pandemia è una condizione all’essere umano ormai nota nella pratica clinica e nelle classificazioni dei disturbi mentali si sbaglia di grosso.

Non è uno stress analogo a quelli riscontrabili in seguito a eventi estremi previsti nei manuali diagnostici, per es. i traumi da catastrofe naturale localizzata, non è un disturbo da stress post-traumatico, che invece sembrerebbe essere presente prima dell’insorgenza della Covid19, ma si tratta di uno stress individuale comunitario, “non convenzionale”, di una situazione stressante perdurante e perturbante, che può evolvere in modi subdoli e che si sviluppa attraverso diverse fasi, passando da uno stress acuto (allarme) a un successivo stress cronico, caratterizzato dallo sforzo di adattamento al rischio mortale di contagio che comporta, da una parte, uno sforzo psicosociale ed economico per resistere nella condizione di lockdown e, dall’altra, uno sforzo in primo luogo nella gestione dei danni e, successivamente, nella ricostruzione.

La condizione di stress perdurante e di stress non convenzionale, che non colpisce solo il presente ma è destinato a proiettarsi nel futuro, fanno dello stress da pandemia una condizione clinica del tutto nuova.

Sono tre le fonti di stress legate alla Covid19 individuate dalla medicina:

  • Pandemia: dichiarata dall’OMS, l’11 marzo 2020. La condizione di pandemia si prefigura come uno stress in quanto comporta una minaccia invisibile e diffusa (rappresentata dai droplets ) di infettarsi, con il rischio di sviluppare una malattia a esordio improvviso, a evoluzione rapida e poco controllabile, con morte per polmonite ma anche per interessamento di altri organi.
  • Infodemia: si tratta di un neologismo coniato dall’OMS proprio in occasione della pandemia da Covid19 per indicare l’eccesso di informazioni dei media, un contagio di informazioni a contenuto soprattutto angosciante, terrorizzante e quasi sempre contraddittorio e poco chiaro.
  • Lockdown: in Italia iniziato il 9 marzo 2020 data in cui vengono presi dal Governo un insieme di provvedimenti per prevenire e limitare il contagio da Covid19. Il “distanziamento sociale” e il blocco di tutte le attività produttive non fondamentali per la vita, come se la cultura non fosse un bene primario, sono state, nella vita di ogni persona, uno sconvolgimento e una frattura sulla continuità e la “normalità” della vita.

Lo studio, pubblicato sul Journal of Environmental Research and Public Health, condotto all’Università di Pisa dal professor Angelo Gemignani insieme al dottor Ciro Conversano alla dottoressa Graziella Orrù con la collaborazione dell’Auxilium Vitae Rehabilitation e la Fondazione Volterra Ricerche ONLUS è  allarmante. La pandemia ha provocato nel 40 per cento del personale sanitario reazioni acute e significative di stress dovute dall’esposizione diretta al dolore dei pazienti, alla loro sofferenza psicologica e morte.  Una reazione acuta assimilabile al disordine da stress post-traumatico con un quadro clinico che generalmente comprende umore negativo, sintomi dissociativi e alterazioni della reattività. Il quadro emerge da una rilevazione condotta su un campione di 184 partecipanti provenienti da 43 paesi e 5 continenti diversi, nel periodo compreso tra il 1 maggio ed il 15 giugno 2020.

Le donne hanno mostrato effetti maggiori rispetto agli uomini (47,3% contro 34,4%). I livelli di stress appaiono particolarmente critici negli operatori sanitari in prima linea (47,5%) e negli operatori sanitari esposti alla morte di pazienti infetti (67,1%). Dati che mostrano una situazione preoccupante che dovrebbe far riflettere sulle possibili implicazioni dell’impatto della pandemia a lungo termine ma che purtroppo sembrerebbe non preoccupare più di tanto, il Governo.

In questa articolata struttura di interventi, la stampa e i social media dovrebbero lavorare per favorire una visione del futuro, centrata sulla costruzione di un orizzonte raggiungibile e condiviso e non nella costruzione di un capro espiatorio su cui convogliare i fisiologici sentimenti di rabbia, su creare discriminazioni tra chi si vaccina e chi decide di non farlo.

E’ arrivato il momento di parlare di numeri reali, conseguenze dannose inevitabile: le manifestazioni della rabbia, nelle forme auto-dirette ed etero-dirette, costituiranno un’urgenza del prossimo futuro. Uno studio della Link Campus University di Roma segnala, in Italia, tra il 2012 e il 2018, quasi mille suicidi per motivi economici. Nelle settimane del lockdown si sono avuti 42 suicidi e 36 tentativi di suicidio, dato molto allarmante se si confronta con quello dei rispettivi mesi dell’anno precedente. Negli USA si stimano circa 75.000 vittime, classificate come “morti per disperazione”, nei prossimi 10 anni, legate alla pandemia e che comprendono suicidi e decessi per abuso di sostanze.

Queste sono le informazioni che stampa, media e social dovrebbero inviare a divulgare attivando un impegno massiccio di prevenzione e sensibilità che nel prossimo futuro diventerà il tallone d’Achille del nostro paese.

Impegno, energie, risorse che ora e non domani, devono essere indirizzati sui giovani, sui ragazzi dai 12 ai 20 anni, invisibili, di cui nessuno ha parlato, ragazzi che silenziosamente hanno accettato questo lockdown in un’epoca dello sviluppo in cui lo stare con gli altri, i primi amori, gli errori per crescere sono fondamentali e vitali per la costruzione dell’identità. A essi e ai ragazzi poco più grandi, scalpitanti di entrare nel mondo del lavoro, deve essere indirizzato uno sguardo molto accorto perché questa pandemia rischia di togliere loro il futuro: sarà una seconda pandemia di cui la governance sarà responsabile.

Occorre acquisire o essere aiutati ad acquisire un’attitudine di costruttività, riportare in questa fase la pro-socialità, il senso della collettività, la solidarietà e la cooperatività, una collaborazione globale che deve partire proprio da un’intervento efficace del Governo.

Di fronte a questi stressor così inattesi, traumatici e soprattutto riguardanti l’intera umanità, l’uomo ha una reazione fisica e psichica volta ad adattarsi alle mutazioni dell’ambiente, per affrontare la nuova condizione e per resistere. In seguito al contagio da Covid19, l’uomo reagisce attraversando le classiche fasi di risposta allo stress ma con delle specificità proprie di questa pandemia.

Ecco perchè, uscire da questo stato traumatico può essere perseguito attraverso l’utilizzo di due obiettivi strumentali, entrambi basati sulla resilienza: il primo, a livello individuale, consiste nel costruire pensieri e comportamenti di cura per sé e per gli altri; il secondo, a livello di comunità, si basa sull’accettazione di comportamenti e azioni collettive (per es., il lockdown) e di altre misure decise dalle autorità nazionali e locali.

Non è possibile bendarsi gli occhi e far finta che la fine di questa pandemia riporterà luce. Superata la prima fase, nella seconda, inevitabilmente, verremo tutti trascinati dalla sofferenza, dolore per le perdite subite, per gli affetti finiti, per le perdite economiche. In questa fase, l’accettazione di quanto accaduto rappresenta il punto di partenza per una seconda risposta di adattamento che si muove tra tentativi di ripresa e di ricostruzione, risposte creative e sfida di rilancio, ma anche possibili fallimenti. Il rimedio in questa fase si ritrova nella plasticità adattativa, funzione caratterizzata da capacità innate, quali flessibilità, resilienza, adattabilità, speranza, capacità di affiliazione e comportamenti pro-sociali, senso di appartenenza, progettualità, impegno, inventiva, proprietà vitale della mente dell’uomo che può essere costruita partendo proprio dal Governo.

Occorre investire maggiormente in prevenzione e occuparsi concretamente di salute mentale, su tematiche cui è prioritario intervenire e sulle quali il Governo non si impegna a sufficienza. Servono sia finanziamenti, ma serve che gli stanziamenti fatti non vengano revocati ma, al contrario, si traducano in interventi concreti.

Il supporto sociale appare una variabile fondamentale ma è la governance che deve garantire non solo la sicurezza economica minima ma in primis la tutela della salute mentale di un Paese messo in ginocchio da un trauma che lo segneranno per sempre.

Non c’è più tempo da perdere è il momento d i pervenire.

26-02-2022
Autore: Laura Caldara
Avvocato esperto in leadership e comunicazione politica
meridianoitalia.tv

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