di Simonetta Fasoli

Jerome Bruner: “La scuola è l’ingresso alla vita della ragione”

 Ripropongo in apertura questa formulazione del grande Bruner, che ho utilizzato in un recente post sul mio profilo Facebook, come introduzione agli auguri rivolti a tutti e tutte per il primo giorno di scuola. Mi è sembrata una sintesi di forte potenza evocativa, un richiamo di spessore culturale, significativo del pensiero di un autore a mio avviso non abbastanza frequentato.

Qui il tema non è tanto la razionalità organizzativa (pure essenziale nei contesti in vari modi afferenti alla scuola) quanto la “ragione” come misura interna di ogni percorso formativo: una ragione di ispirazione kantiana, che trova il proprio approdo e compimento nel riconoscimento dei limiti che la costituiscono. Una premessa impegnativa, ma necessaria, per i tempi difficili che stiamo attraversando e le crucialità che ci fronteggiano. Proprio in questi giorni, infatti, su tutto il territorio nazionale si stanno avviando le lezioni del nuovo anno scolastico e si ripetono i suoi rituali, di cui gli auguri sono parte inscindibile.

E’ chiaro tuttavia che di rituale e di ripetitivo c’è ben poco, in un tempo segnato dagli eventi della pandemia, da una cesura che pesa sul corpo ferito della società con i segni di una discontinuità emergente a tutti i suoi livelli. Insomma, se di ritorno si tratta, e per più versi è così, è un ritorno sui generis sul quale vale la pena fare qualche riflessione.

Comincerei dalla nozione di tempo, e non solo perché è centrale nell’educazione e nei suoi epifenomeni, ma perché è in questo nodo che si possono rinvenire importanti filoni di riflessione sul presente. Il tempo dell’educazione ha una dimensione di “ciclicità” che appartiene a una nobile e consolidata tradizione pedagogica, entrando in un rapporto di connessione/conflitto con il tempo lineare che fa da sfondo alla nostra consapevolezza di “moderni”. I “cicli” scolastici non sono solo un dispositivo originale messo in campo dalla pedagogia moderna, per rendere più efficace il processo di apprendimento attraverso la pratica del “ritorno” sui temi del processo stesso, in un movimento “a spirale”. Sono anche un “criterio organizzatore” di ordinamenti, un modello di immaginario culturale che rende comprensibile e narrabile l’intero impianto del sistema di istruzione e formazione.

Il tempo ciclico, insomma, è un artefatto che appartiene all’universo della scuola e dell’educazione, non a caso analogamente a talune scansioni dei tempi liturgici tipiche del fenomeno religioso. Potremmo dire che l’anno scolastico si snoda su un duplice asse temporale: i giorni e le stagioni che corrono linearmente e le scansioni delle sue fasi che procedono secondo lo schema “rassicurante” della ripetizione. Ho sempre trovato interessante questa sorta di “doppia verità temporale” che attraversa l’esperienza di chi è a scuola. Merita un di più di attenzione in quel momento topico che è proprio l’inizio di un nuovo anno scolastico; quando la duplice dimensione emerge in tutta la sua potenziale conflittualità e gli insegnanti (ma anche tutti coloro che operano nella scuola) fanno i conti non solo con il tempo lineare che tutti ci coinvolge, ma con quella sua forma potenziata che è il tempo “qualitativo”. Tre mesi non sono un’unità di misura omogenea, tra adulti e soggetti in crescita. Si lasciano bambini e bambine incerti e balbettanti, si ritrovano preadolescenti spavaldamente bisognosi di opportunità in cui mettere a prova la loro voglia di autonomia. Si prende congedo da adolescenti alle prese con le turbolenze della crescita, si ritrovano giovani per cui spazi, banchi e sistemi di comprensione del mondo sono diventati troppo stretti. Ciò che era familiare si rivela estraneo: uno spiazzamento necessario per crescere e far crescere; un’esperienza che per certi versi condividono genitori e insegnanti.

 Il tempo lineare/qualitativo è sempre più forte di quello ciclico escogitato per contenere le spinte centrifughe e la voglia di esplorare il mondo…per questo l’educazione è una sfida sempre aperta e piena di “effetti collaterali”: questo è il suo rischio, questo è il suo massimo fascino.

Questo è sempre vero per i tempi ordinari che vive la scuola, ma è più che mai vero per questo tempo qui, in questi due anni che ormai hanno assunto la forma di un passaggio davvero epocale, così tanto da doverci suggerire un po’ di prudenza e sobrietà nel fare ricorso troppo facilmente al termine “epocale”, come non di rado abbiamo visto fare anche in tempi recenti. Non sarà facile, e dal mio punto di vista non è auspicabile, aprire il nuovo anno con un “dove eravamo rimasti?”, quasi ad auto - rassicurarci sulla gestibilità del cambiamento, sulla riduzione al “noto” dell’ignoto. Il cambiamento non chiamato per nome, non riconosciuto, rischia di renderci estranei l’un l’altro e di renderci estraneo il mondo. Se una postura è consigliabile a chi ha responsabilità di governo e una qualche funzione “pedagogica”, in senso lato, verso donne e uomini di un determinato contesto socioculturale, direi che è quella del riconoscere il nuovo e di esserne all’altezza. Per converso, trovo in certi accenti e certe strategie adottate, in particolare rispetto alla gestione e al governo della scuola come istituzione, un eccesso di volontà di rassicurare e in definitiva di muoversi nel solco del continuismo: parlando di recupero degli apprendimenti, della socialità, come se si fosse trattato di un inciampo nella catena “produttiva”, per cui basta intervenire sugli ingranaggi (singoli aspetti, singole dimensioni) per riaprire il ciclo e non si trattasse, invece, di ripensare l’intera catena. Fuori di metafora, intervenire sugli elementi “strutturali” del sistema e non sul restyiling dell’impianto che non si vuole sostituire, per un difetto di comprensione e/o per un intenzionale rifiuto dei termini del problema.

Suggerirei, dunque, di cambiare segno alla domanda: non “dove eravamo rimasti?”, ma “chi siamo stati, chi siamo diventati e dove vogliamo andare”. Perché là dove eravamo non ci siamo più e neanche ci stavamo tanto bene…

Pensiamo, per fare esempi macroscopici, alla complessa questione della cosiddetta “dispersione scolastica”. Sappiamo che i dati aggregati del fenomeno, strettamente inteso, fanno registrare un’alta percentuale di ripetenze e abbandoni (gli epifenomeni più facilmente registrabili) che a livello nazionale si attestano su un 13.5%. Se si declina il dato in termini territoriali, emerge un’ulteriore diversificazione tra macroregioni, tra regioni e realtà locali fino ad arrivare alla singola istituzione scolastica: la disamina dà la misura drammatica di un sistema che è segnato da una profonda iniquità interna. Sembra, insomma, che la scuola come sistema non sia in grado di contrastare la trasformazione di diverse origini in destini sociali.

Ancora più lacerato appare il tessuto sociale, se si assume l’accezione più ampia e corretta di “dispersione”, quella che ingloba e fa emergere la cosiddetta dispersione implicita: l’esercito dei dispersi della conoscenza, coloro che completano formalmente il percorso scolastico ma ne escono con un bagaglio culturale, di conoscenze e competenze del tutto inadeguato per esercitare pienamente il loro diritto di cittadinanza. Non stanno nella mappatura dell’anagrafe scolastica, sfuggono ai criteri dell’approccio burocratico, e testimoniano storie che nessuna percentuale è capace di raccontare. Sappiamo che sono questi i più fragili e i più colpiti dall’onda pandemica. Sono il rimosso della scuola che la pandemia non ha creato ma ha fatto emergere.

Di fronte alla crucialità di questi problemi, e di altri che non esamino in questa sede per economia complessiva di discorso, devo confessare che provo una certa insofferenza di fronte alle diatribe che si sono aperte e sviluppate su questioni presentate nella nota forma dicotomica, nella contrapposizione schematica che si è configurata attorno alla logica binaria (Dad sì/Dad no) e tutto il relativo corredo (ora di lezione/laboratorio; conoscenze/competenze…). Ne ho già scritto, tra l’altro, anche su queste pagine e non credo metta conto, da parte mia, aggiungere ulteriori considerazioni. Osservo solo che la didattica a distanza se non è la nuova frontiera della scuola (diversamente direi della didattica digitale, che è una metodologia compiuta e non il semplice ricorso, più o meno occasionale, ad uno strumento tecnologico) non è neanche il male assoluto, come vorrebbe un certo luddismo pedagogico, che ha sbrigativamente addebitato quasi interamente alla Dad i problemi di apprendimento fatti emergere, da ultimo, dagli esiti delle prove Invalsi. Sottolineo, inoltre, che la presenza, in sé, non assicura sulla qualità del processo di insegnamento/ apprendimento né sulla possibilità della relazione educativa, secondo una vulgata semplificatrice con le sue retoriche. Se così non fosse, non avremmo il problema endemico di un sistema che sembra un “ospedale che cura i sani e respinge i malati” (parafrasando una nota espressione di don Milani).

Da queste mie sintetiche considerazioni, un fatto emerge in modo a mio avviso incontrovertibile: la pandemia ha reso eclatante una crisi di sistema della scuola, che come tale richiede risposte e interventi di sistema. E qui scaturisce la domanda cruciale posta da una visione sistemica, che è quella del “cominciamento”: perché da qualche parte bisogna pur “aggredire” i problemi, per non perdersi in conati riformatori a tutto tondo, di cui è purtroppo piena la storia dell’istituzione scolastica, spesso frutto della volontà tutta politica dei governi che si sono succeduti di lasciare una traccia del loro passaggio “aere perennius”. A questo proposito, vorrei indicare qualche prospettiva utile da cui procedere, sulla scorta della mia esperienza di persona di scuola che ha attraversato da diverse postazioni molte stagioni politico-culturali, in un dialogo fitto con gli insegnanti e gli aspiranti insegnanti in diversi contesti di riflessione e formazione. Ritengo che un approccio tridimensionale al cambiamento necessario possa utilmente muoversi contestualmente lungo tre direttrici: gli ordinamenti, i contenuti culturali, le metodologie didattiche. Non vedo una gerarchia e neanche distinte fasi temporali per queste tre dimensioni: anzi, l’esperienza del passato sembra suggerire di evitare di isolare l’una rispetto all’altra. Serve, dunque, un grande investimento (culturale, politico, finanziario) per elaborare progetti coerenti e per tradurli in percorsi legislativi che tengano conto delle specificità di ciascun/a ambito/dimensione. L’intero approccio presuppone, neanche a dirlo, un ripensamento profondo e ove occorra radicale delle professionalità implicate in quella grande impresa educativa che chiamiamo scuola: dove l’aggettivo fa agio sul sostantivo, vietando qualsiasi sua interpretazione mutuata dall’universo economicistico del mercato. Una deriva che ha già abbastanza “avvelenato i pozzi” di ogni intento riformatore, una strada da abbandonare una volta per tutte: ora più che mai.

“Vasto programma”? Indubbiamente. Proprio per questo, è necessario rinnovare e sancire con il linguaggio dei fatti un patto di corresponsabilità educativa che coinvolga tutti gli attori sociali del sistema, non solo gli addetti ai lavori o i diretti interessati, e che liberi finalmente dalle retoriche della “scuola prima di tutto”, cui non sono seguiti processi politico-culturali coerenti con l’altisonante affermazione di principio.

Sento parlare da più parti di scuola diffusa…Bene, se questo significa che la scuola non è riconducibile ai suoi confini materiali, che è una semina ben più larga di un orticello coltivato da interessi effimeri quanto settoriali, benchè nobilmente animati. Ma se questa suggestiva espressione significa che “tutto può essere scuola”, che la scuola è fungibile e surrogabile, allora non sottoscrivo l’espressione, anzi la metto radicalmente in questione e ne chiedo conto. Da tutto quello che ho fin qui esposto e, si spera, adeguatamente argomentato, emerge una considerazione conclusiva: non c’è bisogno di meno scuola, c’è bisogno di più scuola. E di una scuola più giusta.

18-09-2021
Autore: Simonetta Fasoli
Università La Sapienza Roma - Esperta sistemi formativi
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