di Laura Caldara 

Il primo grado della saggezza è sapere tacere; il secondo è saper parlare poco e moderarsi nel discorso…” .

L’Abate Dinouart, nel suo trattato, pubblicato a Parigi nel 1771, “L’arte di tacere” (l’art de se taire), scrive di silenzio e del silenzio.

E penso proprio che ci abitueremo al silenzio del nuovo Presidente del Consiglio, Mario Draghi.

E’ quello che trapela nei corridoi di Palazzo Chigi, dai giornalisti politici che frequentano i palazzi del potere dove hanno già avvertito che l’aria che tira è completamente diversa: I retroscenisti che affollano quelle stanze, adeguatamente distanziati, dovranno essere capaci di leggere e interpretare i silenzi.

E come ha scritto, giustamente, Gianluca Comin su Formiche: “Per la prima volta a memoria di osservatori, l’assenza di qualsiasi anticipazione e gossip sui nomi e sul programma di governo è di per sé un argomento di discussione e di analisi, anche degli esperti. Uno stile-Draghi che, da un lato sta frustrando giornalisti, commentatori e leader politici che, per la prima volta, non hanno potuto esercitarsi con il negoziato su nomi e caselle, dall’altro ha già prodotto un dibattito tra gli esperti di comunicazione. Se in Italia, abituata ai rumorosi talk show e alla ridda di dichiarazioni, il silenzio come modalità di comunicazione politica è come uno shock del sistema, all’estero non è un atteggiamento nuovo, tanto da aver prodotto non pochi paper universitari di studio e analisi”.

Insomma è palesemente evidente che, da Donald Trump a Joe Biden, da Giuseppe Conte a Mario Draghi, in meno di un mese la comunicazione politico-istituzionale ha subito un cambio di paradigma talmente radicale da spingere molti esperti a parlare di “rivoluzione".

Con l’inaugurazione della stagione delle larghe intese, lo schema binario rischia di mettere in difficoltà quei comunicatori politici e istituzionali, aggiungerei giornalisti e intellettuali che, potrebbero non riuscire a separarsi da questa logica o che, ancora peggio, potrebbero considerarla persino come una condizione imprescindibile per continuare a svolgere il proprio lavoro.

Fu il sociologo americano neo-funzionalista Jeffrey Alexander a prevedere che, nel passaggio tra il Novecento e il Duemila, i discorsi politici sarebbero stati costruiti secondo uno schema cognitivo di tipo binario.

L’idea ruotava intorno alla costruzione di una rappresentazione della politica capace di restituire il senso della distinzione tra un “noi” e un “loro”, tra buoni e cattivi, tra valore e disvalore, tra giusto e ingiusto.

Da quel momento in poi, lo schema binario ha concesso poche deroghe alla rigidità con la quale era stato concepito e successivamente gestito nei suoi primi anni di vita. Se il ruolo principale dell’interazione tra istituzioni politiche e istituzioni mediali è quello di determinare simultaneamente  effetti di priming (influenza), di framing (incorniciamento) e di agenda setting (segnalazione delle priorità tematiche), è evidente che un contesto meno conflittuale tra e dentro i partiti, come quello che dovrebbe caratterizzare l’evoluzione del governo Draghi, comporti un ripensamento anche di tale struttura cognitiva.

Una struttura, per il cui tramite, si è ricercato prima il consenso abilitante e poi quello confermante, come avvenuto con le dinamiche del web 2.0 e con l’uso dei social network da parte di partiti e leader politici.

Convincimento che ha spinto a ritenere opportuno non tanto mettere in evidenza l’identità inclusiva: inteso come senso di appartenenza ad una community in nome della ricerca delle ragioni del problem solving, quanto quella esclusiva: ovvero ciò che distingue un leader e un partito da altri leader e partiti.

Le vicende degli ultimi periodi hanno documentato la presenza di importanti tracce di schema binario dentro il Pd, tanto da aver indotto Zingaretti a preannunciare le proprie dimissioni da segretario dei Dem.

Dentro i Cinque Stelle tra l’ala grillino-governista e quella che fa capo a Davide Casaleggio artefice nella giornata del 4 marzo del manifesto “ControVento” elaborato per smarcarsi dal gruppo dirigente del Movimento e provare a raccogliere delusi, espulsi e dissidenti.

Tracce presenti, anche nei partiti di centrodestra in merito all’atteggiamento da assumere sui temi europei o con forti implicazioni europeiste.

La domanda è: ‘si può essere convincenti limitandosi a evidenziare “chi si è” o “chi si vuol essere”, piuttosto che farlo attaccando continuamente gli altri e immaginando sempre un avversario da combattere?’.

Lo sviluppo delle dinamiche di storytelling politico, da una narrazione basata solo sul leader, ad una capace di far recuperare centralità, agevola la realizzazione di questo nuovo approccio fondato sull’accantonamento momentaneo, dello schema binario.

La chiave di svolta la si può ritrovare nel nome dei temi più che dei leader, degli oggetti politici narrativizzabili più che dei soggetti narrativi.

A un’attenta analisi, una simile prospettiva viene incoraggiata oltre che dall’attuale composizione della maggioranza, anche dall’esigenza di mantenere alta l’attenzione sulle questioni prioritarie per il futuro dell’Italia: vaccinazione, sostenibilità ambientale, innovazione, digitalizzazione, crescita economica.

Si tratta di ambiti nei quali è opportuno rinunciare alle contrapposizioni personalistiche e assecondare una logica che valorizzi il merito dei singoli dossier, dopo aver tentato di trovare  soluzioni che uniscono e non solo che dividono.

A tal fine, aiuterebbero fattori quali: accantonare toni da conflitto continuo; un’inedita disponibilità dei newsmakers; ridurre all’osso, la ricerca irrefrenabile di un vincitore e di un vinto a tutti i costi.

Questo non significa rinunciare ad esprimere il proprio punto di vista e a esercitare il diritto di critica, né omettere di comunicare la propria idea in ordine alla gerarchizzazione degli obiettivi da perseguire, cercando di porre attenzione sia a questioni di merito che di metodo ma significa, piuttosto, maturare la consapevolezza che occorre lavorare sulla diade “quantità-qualità” della comunicazione, adattando la prima agli interessi della seconda e non viceversa. Significa, tenere ben distinti i flussi della comunicazione politica da quelli della comunicazione istituzionale, anteponendo l’interesse nazionale a quello di parte, scegliendo con accuratezza e negligenza i contesti, i tempi e i modi in cui e con cui comunicare. Significa puntare su contenuti trasparenti e autentici e non fuorvianti.

Se si vuole davvero aumentare l’efficacia e la chiarezza della comunicazione istituzionale, quello che si deve evitare, è che essa si fonda e confonda con la comunicazione politica, pur indispensabile in una Repubblica parlamentare come la nostra abituata a far leva sui partiti.

Serve coerenza tra le diverse figure coinvolte nei processi di trasmissione dei contenuti. Un percorso obbligato, per evitare che si generi disorientamento tra i cittadini, specie in un contesto pandemico come quello che stiamo vivendo, nel quale alle fragilità strutturali e ai problemi sanitari si aggiungono condizioni di grave disagio economico, relazionale e psicologico. Tracciare il solco e rimanerci dentro è un obbligo che vale per tutti.

Si commetterebbe un errore se non si risolvesse il problema del disallineamento sviluppatosi tra le modalità di comunicazione di Mario Draghi e quelle alle quali ci hanno abituato in questi anni molti leader ed esponenti di partito. Sarebbe un errore non distinguere le forme di comunicazione interna al sistema della politica da quelle esterne, più orientate alla gestione della relazione cittadini-elettori.

La democrazia si fonda sul confronto, non necessariamente sullo scontro. E non è detto che la ragione sia più visibile in coloro che ricercano la conflittualità.

Il governo di Mario Draghi è stato salutato come un punto di rottura con gli esecutivi precedenti soprattutto dal punto di vista della comunicazione. E non sono pochi i commentatori che hanno lodato il silenzio dell’ex banchiere, paragonandolo a una forma di sobrietà istituzionale concentrata più sui fatti che sulle parole.

In netta discontinuità con il Conte bis, la comunicazione di Mario Draghi sembrerebbe avere una componente meno emotiva ma più concreta.

In molti l’hanno ribattezzata “comunicazione pragmatica ed essenziale“: un tipo di comunicazione avvezza agli annunci, agli slogan, alla politica pop a cui l’Occidente è ormai abituato, che si attiene soltanto ai fatti dimostrati empiricamente.

Una comunicazione costantemente alla ricerca della fattualità, tone of voice, linguaggio verbale, para-verbale (prosodia) ed extra-verbale (cinesica) non dispersive.

Del resto, volendo dare una definizione di pragmatico: pragmatico è colui che comprende che, esagerare nell’annuncio di cose che si vorrebbe fare, ma che non si possono fare per tanti motivi significa sì sfruttare a proprio vantaggio l’effetto wow del marketing ovvero l’effetto dello stupore che a breve termine produce effetti positivi in termini di posizionamento e di followership, ma anche generare confusione nei cittadini che spesso non sono più in grado di distinguere i provvedimenti in vigore, da quelli ancora da approvare o frutto di desiderio.

Alla base di questa metodologia operativa, che fa coincidere da un lato la credibilità del soggetto con la sua reputazione dall’altro la sua capacità di accorciare le distanze tra “il dire e il fare”, “tra il fare e il dire”, vi è una doppia consapevolezza: la prima è che ogni premier è diverso dall’altro. Ogni governo è diverso dall’altro. La seconda è determinata, invece, dalla necessità di non sovrapporre il piano istituzionale a quello politico, consapevoli che le istituzioni hanno un modo peculiare di gestire la propria presenza nella sfera pubblica. Presenza che non ha nulla a che vedere con la propensione di partiti e leader politici, alla massimizzazione del consenso in un orizzonte temporale sempre più ristretto.

L’autorevolezza che caratterizza il nuovo governo di Mario Draghi, si fonda su elementi che finiscono per intrecciarsi l’uno con l’altro e che determinano un profilo identitario ben strutturato: competenza multidisciplinare, capacità di mediazione, propensione alla sintesi, senso politico, visione sovrannazionale, sobrietà, riservatezza e lungimiranza, .

Forse per noi italiani, abituati alla violenza dei messaggi politici, ormai assuefatti ad una comunicazione politica che si rifugia negli slogan, urla, che inveisce e contesta, il nuovo stile Draghi è un modo di comunicare fuori dalle righe. Tutto questo in un periodo, come spiega in articolo scientifico sulla rivista Comunicazione Politica, il professore di sociologia della Luiss, Michele Sorice, in cui è in atto un: “processo di piattaformizzazione della sfera pubblica attraverso i social media, per creare un’opinione pubblica verticale sebbene essa sia narrata come entità orizzontale. Non è un caso che proprio nella platform society vengano facilitati fenomeni di iperleaderismo e di emersione di forme di rappresentanza diretta”.

E così sembra un ricordo, anche se è passato pochissimo tempo, l’incredibile dato totalizzato da Giuseppe Conte.

Dario Adamo, social media manager di Giuseppe Conte lo ha raccontato a Mashable: oltre un milione di like in meno di 24 ore. Oltre 2 milioni fra reazioni e commenti. Più di 5 milioni di interazioni e quasi 11 milioni di persone raggiunte.

“Fin dai primi post – racconta Dario Adamo, social media manager di Giuseppe Conte a Mashable: abbiamo condiviso l’idea di una comunicazione che rispettasse il suo stile: sobrio, pulito, istituzionale, ma non per questo meno autentico o privo di emozioni. Da qui i post sulle sue attività pubbliche, i resoconti delle missioni ufficiali all’estero, ma anche i contenuti più “leggeri”, i commenti su fatti di cronaca e le note conferenze stampa in diretta streaming durante la fase più dura della pandemia.

Un lavoro costante, quotidiano, frutto di un confronto diretto tra di noi”.

Due modi diversi di comunicare, da una parte Draghi con i suoi silenzi e Conte con i suoi post. Due stili completamente diversi ma non in competizione tra loro: due modi diversi di vivere l’esperienza istituzionale in un’Italia disorientata e che spera di riporre rivedere la luce in un futuro migliore.

L’aspetto interessante è che si può essere empatici anche senza accrescere a dismisura l’entità degli atti comunicativi, specie dopo aver percorso strade dialogiche anche con quelle cognitive ed emozionali. Si innesca qui l’altro elemento utile alla costruzione di questo nuovo paradigma comunicazionale, ovvero l’essenzialità.

Chiediamoci quando una comunicazione istituzionale è essenziale, dopo aver visto quando e se essa è pragmatica. Filosoficamente l’essenzialità coincide con l’ontologia più che la fenomenologia, ma anche con i principi di necessità e di semplicità. Si identifica con la sostanzialità e la contestualità e con quel minimalismo che si traduce in eloqui asciutti e sintetici.

A fronte dello scenario qui rappresentato, si potrebbe essere indotti a concludere che, una comunicazione istituzionale pragmatica ed essenziale finisca, comunque, per muoversi in controtendenza rispetto all’ecosistema digitale, alle logiche dei media e dei social network, al primato delle strategie di storytelling politico fondate sulla distinzione tra history (dati di realtà) e story (racconto).

Ma bisogna fare molta attenzione, sarebbe un’analisi superficiale, poiché non terrebbe conto di una delle differenze più importanti tra il XX e il XXI secolo. Ciò che va analizzata, infatti, non è tanto l’equazione “maggiore quantità di informazioni uguale maggiore qualità della democrazia”, quanto l’equilibrio dinamico capace di crearsi tra la qualità della democrazia e la qualità dell’informazione/comunicazione.

Allo stesso tempo va ribadito che, la questione cruciale non è tanto quella del potenziale comunicativo a disposizione, che deve essere massimo anche in ambito istituzionale, quanto quella del suo uso effettivo. Un uso che deve considerare variabili contestuali e socioculturali, fasi politiche e tratti caratteriali.

Se volessimo racchiudere la comunicazione del governo Draghi in una formula potrebbe essere: ‘Il potere per il -e del- sapere’.

Draghi ha evocato il termine “potere” ma lo ha fatto per liberarlo dal suo significato negativo. “Il tempo del potere”, ha detto, “può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo”.

Quello che lui evoca non è il potere per il potere ma è il potere di fare le cose, di tradurre la conoscenza e i saperi in sviluppo attraverso un governo “senza aggettivi”, mosso da uno “spirito repubblicano”.

Purtroppo il rischio, dietro l’angolo, è che i discorsi di fiducia siano, elenchi di progetti e di obiettivi. Nel discorso di Draghi non c’è stato nessun elenco tedioso ma si è snodata una riflessione sul nuovo metodo di governo e sui principi che lo guideranno.

L’ex presidente della Bce ci ha offerto, una visione del futuro fondata, soprattutto, sulla conoscenza: “Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni”.

Insomma, il tempo di Draghi vuol essere un tempo di qualità e non di sterile quantità.

Nel suo discorso, non poteva non esserci la pandemia, dallo stesso Draghi descritta come: “una trincea dove combattiamo tutti insieme” e dove “il virus è il nemico di tutti”. Solo che la lotta al virus non esclude l’innovazione e Draghi, citando Cavour, crede che le riforme al tempo giusto diano maggiore vigore allo Stato.

Quello della “biosicurezza” epidemica, e in più in generale della biopolitica, è diventato il nuovo volto dello Stato il cui ruolo principale è diventato quello di prendersi cura dei suoi cittadini per proteggerlo dal rischio biologico della pandemia.

In poche parole, il problema è sempre quello di mitigare il diritto alla salute pubblica con gli altri diritti della persona e naturalmente di farlo entro i limiti dello stato di diritto.

A causa della pandemia la comunicazione politica è diventata comunicazione biopolitica e ha assunto una dimensione più ampia, più statuale. Se la comunicazione elettorale e lo storytelling del singolo leader cominciano ad apparire meno importanti, lo stesso non può dirsi della comunicazione dello Stato e di chi lo guida.

In questo quadro politico il premier è diventato colui che ha cura della comunità. Non si tratta più, come nella Prima Repubblica, di fare l’ago della bilancia di un governo effimero, sorretto da una forte partitocrazia, ma di caricarsi sulle spalle un compito “epocale”, quello di traghettare una nazione fuori da una crisi pandemica e di sistema, “sperando contro ogni speranza” per dirla con le parole dell’Apostolo. E nel discorso di Draghi si oscilla sempre tra la consapevolezza di una missione “epocale” di salvezza, il pragmatismo di chi sa che bisogna resettare un sistema e la visionarietà di colui che deve immaginare un Paese nuovo.

Ne consegue che, per poter far funzionare un sistema comunicativo così macchinoso, non basterà a Draghi agire in modo efficace ma dovrà, con saggezza, evitare sia il rischio della scarsità di comunicazione, che quello del sovraccarico informativo e comunicativo cioè comunicare in modo eccessivo e talvolta contraddittorio.

Una comunicazione politica efficace serve, altresì, a combattere il fenomeno dell’infodemia che non è una malattia che uccide ma che, se non controllata, può portare a conseguenze disastrose per la società.

L’infodemia si ha quando circolano velocemente troppe informazioni non verosimili, fuorvianti, quando una fake news si diffonde a tal punto da sembrare contro-informazione. Alla comunicazione non si chiede soltanto coerenza nei contenuti e nel metodo, ma anche credibilità. Si tratta di un concetto che potrebbe sembrare “inattuale” ma che invece gioca un ruolo fondamentale, visto che chiama in causa un altro concetto: la competenza.

Proprio perché governare la salute pubblica della nazione significa coniugare sapere politico, medico e socio-economico, esso non può essere appannaggio di un politico “puro” o di un realista della politica ma è il compito di un leader “trasformazionale”, quale è Mario Draghi: in grado sia di pilotare un atterraggio d’emergenza, senza mandare nel panico i passeggeri, sia di far ripartire l’aereo verso rotte più ambiziose. Ma può bastare a risanare un paese in ginocchio?

Se allo scoppio dell’epidemia, nel marzo 2020, la risposta della nazione è stata solidale e compatta, è perché un intero paese si è stretto intorno al governo. Gli esperti lo chiamano effetto “round the flag”: una guerra, una pestilenza, un attacco terroristico compattano, almeno nel breve termine, una comunità. Ma cosa accade dopo questa prima fase, quando la pandemia dura per mesi e comincia a fare seriamente male all’economia di un paese? Come si può fare a prolungare le politiche rigide di tutela della salute pubblica senza mettere in crisi le imprese, la scuola, le attività culturali senza mettersi contro l’opinione pubblica?

Liberiamo il campo da un equivoco: non si chiede al governo  la coerenza a tutti i costi. In uno scenario pandemico, soggetto inevitabilmente a continui colpi di scena e che richiede continui aggiustamenti, la coerenza potrebbe rivelarsi persino letale. Le strategie possono e devono variare in ragione dei mutamenti di scenario: la coerenza non deve essere tanto sui contenuti quanto sullo stile di comunicazione. Se si cambia strategia, bisogna spiegare con chiarezza e trasparenza ai cittadini perché si sta cambiando, mettendo i dati a loro disposizione. Sono i dati e la loro lettura algoritmica a fare la differenza.

Draghi è consapevole che gli viene chiesto non solo di garantire la sicurezza sanitaria ma di far tornare competitivo il sistema Italia.

Il discorso al Senato ha fatto emergere la parola chiave: “conoscenza”. La “Nuova Ricostruzione” di cui parla Draghi è la traduzione del “tempo dei costruttori” del Presidente della Repubblica e si fonda sul primato della conoscenza. “Il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura” rappresentano la bussola del discorso di Draghi.

Se per Martha Nussbaum “il potere del sapere” era quello dei saperi umanistici indispensabili anche nella società tecnologica e nell’economia di mercato, il discorso di Draghi vuole riporre al centro, le culture tecniche e scientifiche.

“La globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica” dice Draghi, “stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria”. Servono, in sostanza, più investimenti nella ricerca.

Eppure quel sapere digitale che si è generato nell’emergenza dovrà essere riformulato, migliorato e integrato.

Una comunicazione politica proiettata nel futuro. Lui lo aveva fatto già intendere: “si comunicano i fatti ma, se non ci sono i fatti, non si comunica”. Nell’era Draghi ci sarà probabilmente una decrescita comunicativa. Si può quasi dire che annunci l’avvento di una “ecologia della conoscenza” e che intenda proporsi come un facilitatore dell’incontro tra diverse sfere “digitalizzazione, energia, cloud computing, biodiversità” nell’ottica di una “sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le azioni umane”.

In presenza di una pandemia emozioni come la paura, il terrore, ansie, oltre a limitazioni dei diritti, che effetti socio-economici devastanti, diventano un cocktail micidiale. Di fronte a questo scenario di crisi c’è bisogno di un leader che sappia governare, anche dal punto di vista comunicativo.

É utopia chiedere a Draghi di trasformarsi in un leader-coach super-empatico perché, di fondo, la sua è una leadership fondata sulla conoscenza.

Ma per vincere la sfida della pandemia e della crescita economica non è sufficiente una macchina statuale che amministra risorse e assume decisioni di salute pubblica ma occorre stabilire una “connessione sentimentale” con la nazione, motivare i propri cittadini e indurli a condividere le decisioni dell’esecutivo non per fideismo ma con argomenti razionali. Senza dimenticarsi che i fatti, senza comunicazione, sono muti e che la comunicazione, senza fatti, è vuota.

La domanda è: ma questo tipo di comunicazione può davvero bastare a cambiare le sorti di una nazione messa in ginocchio da un destino infausto?

A mio modesto parere, in una visione comunicativa di questo tipo, il silenzio diviene “assenza” e in alcuni casi può risultare addirittura lesivo. Le interpretazioni in questo caso sono due: da un lato il silenzio indica carenza di informazioni, nella convinzione comune che chi non comunica ha qualcosa da nascondere e preferisce celare i meccanismi della politica all’opinione pubblica; dall’altro il silenzio può indicare la volontà di non far emergere certe istanze, di solito quelle dei più deboli. Entrambe sono percepite dalla negativamente dalla collettività, la quale finisce per affidarsi a quella “voce fuori dal coro” in grado di “rompere” il silenzio.

Al plauso dei giornalisti potrebbe sostituirsi un certo malcontento da parte dei cittadini, disorientati dall’assenza di qualsivoglia tipo di comunicazione istituzionale. Cittadini che sempre più coinvolti in stati emozionali elevati, sono in cerca di rassicurazioni e informazioni che però arrivano con il contagocce. Inoltre, l’incertezza potrebbe facilmente confondere la comunicazione istituzionale con la sempreverde comunicazione elettorale, che i partiti adottano con fare fraudolento anche quando sono al governo per le più disparate esigenze di consenso.

La domanda che si pongono gli analisti della comunicazione politica sono divisi sul tema: comunicare o no? Non ci sono dubbi che una comunicazione essenziale sarebbe sicuramente una manna dal cielo per una politica da tempo prigioniera di una sorta di bulimia comunicativa. D’altro canto, il popolo non è una massa informe che non reagisce agli stimoli, anzi al contrario sono attenti e attivi agli stimoli. Ne è stato esempio il caso AstraZeneca. Gli italiani sono rimasti profondamente sconvolti e ciò è stata conseguenza soprattutto della cattiva gestione comunicativa del fenomeno. La politica ha assecondato i sondaggi, la sanità non è stata in grado di far valere quelle ragioni empiricamente valide che lo stesso Mario Draghi fissò nella sua tabella di marcia non appena accettato l’incarico.

Le masse reagiscono agli stimoli e questo un uomo politico dovrebbe saperlo. Ma urge ricordare che Mario Draghi non lo è: il Presidente del Consiglio è innanzitutto un economista e un burocrate, il quale basa le sue scelte sul mero calcolo contabile e non tiene conto dei sentimenti dei suoi concittadini semplicemente perché non ne ha bisogno. Se da un lato una tale soluzione potrebbe risultare una virtù, dall’altro risulta chiaro che una nazione non è una banca fatta di freddi numeri.

Una nazione è formata dal popolo, da persone dotate di sentimenti e problematiche quotidiane che necessitano di risposte. Se un governo si pone l’obiettivo di farsi seguire e comprendere è necessario occuparsi anche di loro. Durante una pandemia poi, la comunicazione è quanto mai necessaria. I cittadini hanno bisogno di indicazioni, di rassicurazioni, di empatia. Un governo per avere un seguito deve obbligatoriamente instaurare un rapporto solido con la popolazione attraverso una comunicazione efficace, costante e rassicurante. Inoltre, se il governo Draghi rinunciasse a comunicare lascerebbe questo onere ai partiti che alla comunicazione istituzionale preferiscono quella elettorale.

Devo darne atto, fino ad ora l’ex banchiere è riuscito tutto sommato a controllare l’umore delle formazioni politiche ma è improbabile che, in procinto delle elezioni comunali, questa pax draghiana reggerà. Quando la campagna elettorale entrerà nel vivo, il caos comunicativo, che si sta generando, costringerà il governo a compiere spericolate giravolte sugli argomenti del momento con conseguenze pesanti sulla sua credibilità, attendibilità e autorevolezza.

In molti ricorderanno quel periodo in cui Lega e Fratelli d’Italia diffusero la bufala dell’approvazione del MES da parte del precedente esecutivo. In quel momento Giuseppe Conte fu costretto a intervenire in diretta nazionale per smentire questa eventualità. Si trattò di un gesto estremo e attaccato da molti, ma necessario poiché la notizia avrebbe fortemente indebolito il suo governo in un momento fin troppo delicato per lasciare spazio all’incertezza. Le fake news colpiranno anche Draghi, su questo non c’è dubbio. Un primo assaggio ha riguardato il vaccino di AstraZeneca. Nel caso di specie, la mancanza di una risposta tempestiva ha generato commenti sconfortanti e malumori, che si sono accompagnati a richieste di spiegazioni chiare e immediate per cercare di comprendere cosa fare in un momento di tensione.

La politica del silenzio non può essere una soluzione a lungo termine. Sui social, ad esempio, una corretta comunicazione istituzionale può funzionare da filtro di notizie con troppa semplicità date in pasto al pubblico dai portatori sani di propaganda. Inoltre, in alcuni casi anche la funzione emozionale dei social, che annulla la distanza piazza-palazzo, può tornare utile a quel governante di turno troppo rigido in pubblico e che cerca soluzioni alternative. In questo senso i social sono un mezzo formidabile.

In buona sostanza, la comunicazione del governo Draghi non sarà esente da effetti collaterali. Complice il periodo di crisi scaturito dalla pandemia Covid-19, i flussi di informazione sono elevatissimi e l’utilità di una voce unica in grado di ridurre al minimo la sensazione di incertezza dell’opinione pubblica è quanto mai necessaria. L’ex banchiere dovrà essere capace di superare l’irrigidimento contabile, che lo caratterizza, in nome di un ruolo più dinamico in cui la responsabilità si esercita anche attraverso la comunicazione, la quale, non è un semplice orpello bensì una delle tante virtù dell’attività politica.

I social sono ormai diventati la seconda casa della politica. Beppe Severgnini ha scritto: “È inevitabile che candidati e partiti li usino: il genio è uscito dalla bottiglia, e dentro non torna. È disdicevole, però, che li usino per trasmettere faziosità senza contraddittorio”, scrive il giornalista sul Corriere

Se negli USA si discute sul modo in cui i Presidenti che si avvicendano alla Casa Bianca gestiscono la comunicazione sui social network, in Italia - paradossalmente - si parla del modo in cui non li utilizzano più. Perché non solo il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, non possiede un profilo su nessun social network, ma in aggiunta, da quando ha ricevuto l’incarico di formare il nuovo Governo, ha ridotto le comunicazioni all’osso, dimostrando che “anche il silenzio comunica”, come recita il Manifesto della comunicazione non ostile

Insomma, il nuovo Premier sta imponendo alla politica italiana una sorta di “dieta comunicativa”, in netta contrapposizione rispetto a quanto visto nel recente passato, quando la sovrabbondanza di tweet, post, foto, dirette social, condivisioni, interviste e partecipazioni ai talk show per i politici era la regola e non l’eccezione. 

“Stile comunicativo europeo” hanno commentato molti osservatori, paragonando i silenzi di Draghi a quelli di Angela Merkel che sono addirittura stati oggetto di uno studio pubblicato su Contemporary Political Theory. “Stile da banchiere centrale” hanno detto altri. 

Proprio quando era a capo dell’Eurotower, tra l’altro, Draghi fece il discorso più famoso mai pronunciato da un banchiere centrale. Era il 26 luglio del 2012 il giorno in cui con tono asciutto, ma diretto disse: “La Bce farà tutto ciò che è necessario per salvare l’Euro. E credetemi, sarà abbastanza”. Con quelle parole, Draghi riuscì a fermare i grandi fondi che stavano speculando contro i debiti sovrani. Perché quelle sue tre parole, 'Whatever it takes' sono considerate le più potenti nella storia delle banche centrali? Per la credibilità di chi le ha pronunciate”, ha commentato l’attuale presidente della Bce, Christine Lagarde. 

Adesso, a Draghi viene chiesto, da Presidente del Consiglio, di ripetere lo stesso “miracolo” fatto nove anni fa da banchiere centrale. Stavolta è l’Italia quella da salvare dalla crisi economica e dai mali che si porta dietro da anni. Proverà a farlo senza dirci nulla?

Il principio etico principale, alla base della politica è costituito dal perseguimento dell’interesse nazionale e non dall’occupazione del ‘potere’ con dichiarati propositi etici e in effetti per scopi personali, partitici o peggio. Non esiste questione morale che possa interessare la politica. Esistono comportamenti leciti o illeciti, consentiti o non dall’ordinamento. Che poi l’ordinamento si conformi sempre ai principi, scritti e non scritti, è tutt’altra cosa.

Osservare il flusso degli scenari della vita politica consente di constatare che l’equilibrio intrinseco dell’ordinamento è sempre più precario. Mi riferisco alla liceità, non alla opportunità politica, dei provvedimenti che imbavagliano la stampa. Il giornalista responsabile può, non deve, pubblicare tutte le notizie di cui venga in possesso, con gli unici limiti etico-giuridici della verifica e del rispetto dei soggetti deboli.

La questione morale è stata introdotta nella politica, dal partito comunista di Berlinguer. Erano diffusi nella politica, nei partiti e negli ambienti che se li potevano permettere, comportamenti arroganti e illeciti. Nulla a che vedere con la morale, che è individuale e imperscrutabile. I comportamenti sono stati messi sotto accusa, all’inizio degli anni ‘90, prima dalla magistratura, poi dalla stampa, infine dai cittadini.

Non c’è adesso questione morale che abbia oggettivo rilievo politico. C’è buona o cattiva politica e c’è buona o cattiva comunicazione politica.

Si sa, ormai, che i mezzi di comunicazione di massa si stanno modificando ed evolvendo in mezzi di comunicazione verticali: sempre più orientati a parlare a singolarità piuttosto che a cluster di target multipli.

Si vede subito come un fatto quantitativo abbia immediata ricaduta sul “fatto etico”: ovvero, la comunicazione politica dovrebbe avere come suo obiettivo quello di generare partecipazione vera e reale, non quello di generare semplice consenso. Quando la comunicazione politica accantona il suo vero obiettivo – quello cioè del coinvolgimento delle masse o delle singole persone nel dibattito, al fine di migliorarlo grazie ad un’opinione pubblica sempre più formata e consapevole, diventa propaganda.

Le società realmente democratiche, hanno molti limiti, ma non certo quello di non avere tra i loro principali obiettivi la libera circolazione delle idee all’interno del dibattito pubblico. Al contrario, le società non democratiche hanno l’obiettivo di impedire la libera circolazione delle idee. Questo viene attuato, oltre che con ogni mezzo di limitazione e coercizione della libertà personale, con la propaganda. Diventa allora palese che la propaganda è una forma degenerata della comunicazione politica.

Benché da più parti si gridi alla necessità di riattivare la partecipazione, dall’altra non si fa nulla di più che gestire il rapporto con l’elettorato attraverso annunci solo e smaccatamente propagandistici, spesso interpretando i dati in  maniera strumentale o addirittura menzognera.

La reale partecipazione ha bisogno di qualità del dibattito e tempo per il dibattito. Due caratteristiche che non sembrano appartenere al mondo della politica – ovvero dei media – di oggi.

La politica oggi ormai è schiava dei media, succube della dichiarazione giornalistica. Che politica e giornalismo e anche comunicazione tout court siano da sempre andati di pari passo non deve stupire. Che cosa sarebbe la politica senza la comunicazione? Niente, semplicemente non potrebbe esistere. Il problema di oggi, è di altra natura. Ovvero che l’agenda politica sia dominata, nei tempi e nei modi, dal palinsesto televisivo-digitale. Ecco che il programma politico è pensato più come uno strumento per piacere, piuttosto che come uno strumento per fare, per incidere sulla realtà.

La politica ha derogato a una delle sue funzioni: la tattica ha definitivamente vinto sulla strategia politica e i risultati sono quelli di un paese in progressivo disfacimento.

La democrazia è lenta, la sua velocità non è la velocità del nostro stare nel mondo, del nostro iper comunicare, del nostro continuo tempo reale.

La domanda critica è “siamo certi che la comunicazione così come noi la definiamo o solo la immaginiamo sia in realtà ciò che avviene realmente nei processi di comunicazione politica”?

Recentemente, curiosando in internet la mia attenzione si è soffermata su di un sito che pubblicizzava un corso mirato alla conquista del successo politico, dove si affermava: “la Politica non è altro che una forma di Seduzione…i risultati di consenso in Politica, non dipendono da ciò che pensano le masse, ma piuttosto dalla nostra abilità a modulare le loro opinioni. Far accettare un’idea o un’opinione diventa estremamente semplice nel momento in cui sappiamo come instradarla nella mente di chi ci sta di fronte, sia essa una singola persona o una folla di ascoltatori…”.

La Comunicazione politica non è persuasione né informazione a senso unico, ma è soprattutto ascolto, elaborazione attiva dei segnali di ritorno della voce dei cittadini che hanno bisogno di risposte alle loro domande.

Comunicazione, deriva dal latino “communis” che possedeva il doppio significato di: 1) mettere in comune qualcosa nel senso di condividere e/o partecipare; 2) mettersi sotto un’unica autorità per la protezione e la guida. Nelle società moderne comunicare significa “trasmettere informazioni”; nella prospettiva psicologica ha assunto il significato di esprimere all’altro, in termini di risposta, “qualcosa” che riguarda la propria Persona. Purtroppo, spesso la persona, nella comunicazione politica è trascurata, per non parlare del mondo delle emozioni. Vale sempre e solo il comportamento e si tralascia completamente la dimensione interiore dell’uomo.

Illuminante a questo proposito la lezione di Ferdinand de Saussure il linguista svizzero che nei primi del 900 stabilì l’importante differenza tra significante e significato. Intendendo per significante l’immagine acustica o grafica che ha la proprietà di richiamare un certo significato.

Cane, dog, chien, sono 3 significanti dello stesso significato che si riferisce al più grande amico dell’uomo. Ma è diverso il vissuto, il senso che del cane hanno le diverse persone. Per un bambino, per chi ama i cani, per uno che ha fobia di questi animali etc., etc.

Insomma è chi ci sta difronte, attraverso la visione che ha del mondo, le sue emozioni, i suoi pregiudizi, a tradurre i segni e segnali in significati, in contenuti. Noi non siamo ciò che pensiamo di essere o di dire, ma siamo ciò che l’altro percepisce di noi. Questo dovrebbe ribaltare il nostro modo di intendere la comunicazione e di riflesso esaltare il senso della relazione, del feedback, dell’ascolto, della verifica. Chi scopre questo segreto, dispone di maggior potere relazionale oltre ad acquisire maggiore flessibilità.

Questo è il tipo di comunicazione, che a mio avviso, dovrebbe interessare un governo che nasce e vuole crescere, durare, incidere nel lungo e nel tempo, prendendo consensi.

Oggi la comunicazione politica non chiede retorica né aride tecniche di persuasione perché cresce sempre più la domanda di comunicazione interattiva, “one to one” fra la gente e con la gente. Sia essa scaturita dall’incontro fisico, personale, che mediata dalla tecnologia del web, il mezzo di comunicazione che più si avvicina alla comunicazione viva tra le persone.

La stessa informazione distorta dall’opposizione che vanifica o ribalta progetti, idee, magari prima ancora che essi diventino decisioni, richiede una contro-informazione sottile ramificata nelle nicchie dei linguaggi e delle sensibilità. Una sintonia che si consolida, e rafforza il patto e la fiducia dell’elettore, soprattutto nel contatto diretto, vivo, tra politico e cittadino. Cresce la domanda di web, nella sua dimensione più interattiva e oggi, più che mai, vince chi ha un forte orientamento verso la persona. Il mondo cambia rapidamente e chiede relazione ed interattività.

Ricorderete questo aneddoto: Mark Penn, ex direttore della comunicazione di Hillary Clinton, prendeva in giro Barack Obama per la sua attenzione nei confronti di Facebook. Per Penn, “una buona campagna elettorale si costruisce con sorrisi e strette di mano, non si basa su computer e server”. La realtà, così come è andata nei fatti, ha letteralmente spazzato via la credibilità di questa affermazione. Il senatore Obama di mani ne ha strette tante ma ha contemporaneamente lavorato e tuttora lavora politicamente sugli spazi virtuali dove i suoi sostenitori possono incontrarsi, creare comunità, scambiare opinioni, micro-donazioni. L’Italia non è l’America. Ma ancora per quanto?

Certo ogni Paese ha una sua storia ed una sua specifica evoluzione. Ma certi trend sono abbastanza prevedibili.

27-04-2021
Autore: Laura Caldara
Esperta in leadership e comunicazione politica
meridianoitalia.tv