di Rosa Manzo

Sono trascorsi 5 anni dal 12 Dicembre 2015, data in cui la 21° conferenza delle parti alla Convezione Quadro sul cambiamento climatico ha adottato l’Accordo di Parigi. Pochi sanno che benché l’Accordo sia diventato effettivo dal 2016, la sua piena operatività è stata raggiunta solo nel 2020, anno in cui gli Stati hanno presentato il piano quinquennale di politica verde nel quadro dell’obiettivo climatico raggiunto a Parigi.

Le deficienze dell’Accordo di Parigi sono forse state il maggior oggetto dei media mentre sporadiche sono stati i commenti positivi della opinione pubblica. Le maggiori critiche riguardano il carattere non vincolante di molte norme e il mancato rifermento alla difesa dei diritti umani nel testo dell’Accordo. I 4 anni di negoziazioni precedenti alla adozione del testo non devono però passare inosservati.

Le due settimane di negoziazioni culminate a Parigi nel 2015 hanno portato all’adozione di un trattato internazionale e per tanto vincolante tra le parti come si evince dalla formulazione stessa dell’Accordo contenente per l’appunto norme che ne regolano l’entra in vigore quanto la possibilità di recesso e di modifica. L’Accordo diviene effettivo a partire dal 4 novembre 2016 data del compimento del processo di ratifica da parte degli Stati firmatari. L’elemento principale dell’Accordo è costituito dalla Nationally Determined Contributions, conosciutre con l’acronimo di NDCs.

In una visione di insieme l’Accordo di Parigi rappresenta un trionfo e un momento storico per il multilateralismo. Quali sono i motivi del suo successo? Una forte leadership della presidenza francese insieme a una decisiva spinta da parte di un gruppo di paesi, in primis l’Europa ma anche di US e Cina per la conclusione di un testo congiunto. Un ruolo altrettanto decisivo è stato svolto dalla società civile in particolare nel fare emergere le aspettative per il raggiungimento di punto di svolta sulla crisi climatica. Un secondo elemento del successo riguarda la struttura ibrida dell’Accordo. Come è stato osservato l’Accordo adotta un approccio ibrido garantendo il rispetto delle libertà degli Stati e al contempo una guida internazionale volta a valutare le performance di ciascuno Stato. Se da un lato le NDCs disciplinate dall’artt. 3 4 dell’Accordo consentono di adottare politiche verdi compatibili con quelle che sono le necessità e interessi nazionali, dall’altro l’obbligo di giustificare le proprie politiche verdi in base a criteri di equità fornisce una chiave di letteura fondamentale per valutare se gli Stati sia coerenti con l’obiettivo climatico stipulato a Parigi. In aggiunta l’Accordo richiede alla parti firmatarie di stilare ogni 5 anni una nuova politica verde che sia maggiormente ambiziosa della precedete senza possibilità di proporre delle politiche meno ambiziose. L’Accordo, insomma, richiede agli Stati di migliorare ogni 5 anni le loro performarmene verso il raggiungimento dell’obiettivo di giungere alla neutralità carbonica entro il 2050. Dimostrare una progressione ma allo stesso mondo adottare le migliori tecniche e basarsi sugli ultimi ritrovati della scienza obbliga ciascuno Stato ad eccellere progressivamente nelle proprie politiche verdi. Non da meno l’Accordo istituzionalizza il meccanismo di riparazione dei danni dovuto dagli avversi effetti cagionati dal cambiamento climatico e consente a tutte le Parti sottoscriventi di finanziare investimenti in qualsiasi realtà del mondo rompendo in questo modo il trasferimento univoco di fondi da paesi sviluppati a paesi in via di sviluppo. Ed ora che l’Accordo è operativo, fondamentale sarà la volontà degli Stati di mantenere fede alle promesse fatte reciprocamente a Parigi.

13-12-2020
Autore: Rosa Manzo
PhD International Law and Climate Change, University of Oslo
meridianoitalia.tv

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