di Pasquale Passalacqua

Il 1° maggio si festeggia in tutto il mondo. Le sue origini fanno riferimento all’approvazione nel 1886 in Illinois, della prima legge sulle otto ore lavorative giornaliere, che entrò in vigore appunto il 1º maggio 1867. Tuttavia, il successivo 1º maggio 1886, in piazza Haymarket, a Chicago, un raduno di lavoratori che manifestava a causa delle difficoltà di applicazione di quella normativa si trasformò in tragedia, a causa di un lancio di una bomba su un gruppo di agenti di polizia provocando morti e feriti, cui seguirono condanne anche a morte per i presunti colpevoli.

La data fu elevata a simbolo delle lotte dei lavoratori il 20 luglio 1889, a Parigi nel congresso della Seconda Internazionale. In tempi più recenti il 1º maggio 1955, papa Pio XII istituì per tutta la Chiesa cattolica in quella data la festa di San Giuseppe lavoratore.

Quale può essere il significato del 1° maggio oggi?

         Occorre chiederselo, in quanto il mondo del lavoro appare profondamente mutato rispetto all’impostazione tipica della rivoluzione industriale, nella quale appunto la fissazione del limite delle otto ore lavorative rappresentò una delle prime conquiste del movimento dei lavoratori.

    In un saggio del 1992, The End of History and the Last Man, il politologo Francis Fukuyama preconizzava appunto la fine della storia, a valle della allora recente caduta del muro di Berlino e dell’affermarsi del modello della democrazia occidentale. E la fine della storia non c’è stata, anzi.

Negli stessi anni, nel 1995, suscitò un analogo vasto dibattito il saggio The End Of Work: The Decline Of The Global Labor Force And The Dawn Of The Post-Market (La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato) dell’economista Jeremy Rifkin, a valle dell’incessante evoluzione tecnologica che avrebbe dovuto erodere posti di lavoro. Anche la fine del lavoro non c’è stata.

Infatti, il progresso tecnologico nel medio-lungo periodo non ha mai portato disoccupazione, giacché lavoratori addetti a compiti via via scomparsi (lavandaie, tessitori, maniscalchi, lampionai) sono stati riconvertiti in altre mansioni, spesso meno pericolose e faticose. Il disallineamento, ovvero la disoccupazione tecnologica, dicono gli economisti, è temporaneo e stimola l’emersione di nuovi mestieri, di nuove professionalità. Pensiamo al settore delle cure mediche, di cura alla persona, all’assistenza alle persone anziane, ai servizi di vigilanza ecc.

Occorre al contempo tener presente che da tempo ormai si è rotta la costruzione della vita dell’uomo in fasi diremmo monolitiche e impermeabili. Tutta la costruzione prima politica e sociologica sul lavoro e poi giuridica vedeva tre fasi ben distinte: A) quella della formazione; B) quella del lavoro attivo e C) quella del ritiro dal lavoro, cioè del pensionamento. Ora invece le tre fasi da successive e impermeabili diventano porose e intercambiabili: la formazione dura tutta la vita, in quanto l’inarrestabile evoluzione tecnologica la rende sempre necessaria. Il lavoro non è detto che segua tutta la vita attiva dell’individuo, in quanto impieghi sempre più precari possono lasciarlo senza lavoro per determinati periodi. Infine, soprattutto in lavori sempre meno manuali, l’età del pensionamento non coincide spesso con l’inerzia dell’individuo che, se in salute, svolge magari nuove occupazioni.

Parafrasando la famosa impostazione sulla tragedia di Aristotele, quel che perde forza progressivamente è proprio quella unità di tempo e di spazio sulle quali si è sviluppato il lavoro sinora, svolto sempre in uno stesso luogo con un orario di lavoro predeterminato e tendenzialmente fisso.

    Per stare appunto all’oggi, superato il periodo di forzato lockdown per fronteggiare la fase più dura della pandemia, con connesso utilizzo dello smart working, il già intrapreso percorso verso il rientro alla normalità dischiude nuovi equilibri: si parla ormai di hybrid working, da intendere come una forma mista tra lavoro in presenza e lavoro delocalizzato, già invero utilizzato in passato, ma in rapida evoluzione, con varie modalità, attraverso le quali si delineano nuovi assetti delle modalità di organizzazione del lavoro. Ne deriva che il parametro di quantificazione della prestazione legato all’orario di lavoro viene ancor di più a perdere forza e centralità.

 Il 1° maggio assistiamo a manifestazioni sindacali ovunque, anche nell’ambito dei famosi e apprezzati concerti. Tuttavia, non si può non notare che anche il sindacato si trova a pieno titolo a essere coinvolto, per non dire travolto dai nuovi scenari delineati dall’incessante rivoluzione tecnologica, che oggi si muove nel paradigma dell’impresa 4.0. (quarta rivoluzione industriale).

In crisi oggi sono tutte le orme di intermediazioni di interessi, quelle “formazioni sociali” che si muovono tra l’individuo e lo Stato, richiamati dall’art. 2 della nostra Carta costituzionale nella prospettiva - sempre blandita più che compiutamente realizzata - della sussidiarietà.

Sul versante del mercato del lavoro, impieghi meno stabili, lavoratori meno concentrati e meno dipendenti rendono più difficile la tutela contrattuale collettiva tradizionale, che viene a coprire in modo meno esteso e/o profondo l’arcipelago dei lavori, e in modo più discontinuo il tragitto lavorativo dei lavoratori.

La spinta all’individualismo appare così fortissima, dove le nuove generazioni, sempre più scolarizzate, prendono coscienza di tali mutamenti e si approcciano al mondo del lavoro in modo differente rispetto al passato. Il mito non è più il posto fisso per tutta la vita, ma invece si va alla ricerca di opportunità di lavoro che consentano una valorizzazione delle potenzialità dell’individuo, sotto il profilo non solo della soddisfazione economico salariale, ma altresì dell’arricchimento professionale, nonché nella possibilità di essere sempre più coinvolti nei processi organizzativi decisionali delle aziende. Per questo si è disposti molto più che in passato a spostarsi non solo in Italia, ma nel mondo e a cambiare lavoro con minori difficoltà.

Il sindacato si trova dunque di fronte a nuove sfide tanto che, animato nelle sue diverse componenti da una diffusa consapevolezza dei tempi mutati, sta cercando di autoriformarsi e in questa prospettiva in un certo senso di ampliare il suo raggio di azione.

Un nuovo importantissimo “mestiere” del sindacato si può sviluppare anche nel guidare i lavoratori di una zona, o di un’azienda in crisi, nella ricerca su vasta scala degli imprenditori più capaci di valorizzarne le capacità professionali per reperire nuove occasioni di lavoro. La prospettiva più generale appare quella di accompagnare le costanti trasformazioni nel mondo del lavoro, garantendo assistenza e informazione nella transizione.

Ecco in questo mutato contesto, in sintesi rappresentato, la festa del lavoro del 1° maggio ha ancora a mio avviso un significato importante. Il lavoro dell’uomo sempre al centro dell’azione dell’interesse della politica e degli attori sociali, pur nei suoi nuovi paradigmi, nella prospettiva di salvaguardare attraverso la dignità del lavoro la dignità della persona umana (prendo spunto dal titolo del volume del 2018 Il lavoro è dignità. Le parole di papa Francesco, dove gli autori Giacomo Costa e Paolo Foglizzo raccolgono e commentano gli interventi più significativi del Papa sul tema del lavoro).

L’auspicio da rivolgere a tutti sempre valido in questo giorno, che resta di festa, è racchiuso nella nota massima attribuita a Confucio: “Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neanche un giorno in tutta la tua vita”.

30-04-2022
Autore: Pasquale Passalacqua
Ordinario di diritto del lavoro, Università di Cassino e del Lazio meridionale
meridianoitalia.tv

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