di Paolo Balduzzi

Quando, poco più di duecento anni fa, l’economista e demografo inglese Thomas Malthus ammoniva il mondo sui pericoli dell’eccessivo sviluppo demografico, mai si sarebbe immaginato che, nel giro di così poche generazioni, la crisi dei sistemi economici e sociali si sarebbe realizzata esattamente per le ragioni opposte a quelle che lui temeva. Questo, almeno, è ciò che sembra accadere oggi nel vecchio continente e, in particolare, nel nostro paese. Non è certo la crescita eccessiva della popolazione a mettere a repentaglio la nostra esistenza ma, al contrario, il cosiddetto “inverno demografico”: l’incapacità, cioè, che la nostra società ha di riprodursi e mantenersi, sostenendo prima e sostituendo poi le generazioni più anziane con altre più giovani e produttive. Sistemi pensionistici, sistemi sanitari ma anche interi sistemi tributari sono messi in crisi dall’invecchiamento della popolazione.

Con rare eccezioni, in pochi, a dire il vero, sembrano preoccupati. Eppure, se non addirittura esclusivo, l’argomento dovrebbe essere prioritario, tanto nel dibattito politico quanto in quello pubblico. Le questioni che richiedono attenzione sono almeno due. La prima riguarda il nostro approccio nei confronti delle immigrazioni. Chi si aspetta che per risolvere la crisi demografica bastino adeguate politiche per la natalità rimarrebbe deluso. L’“inverno demografico” non è una prospettiva: è attualità. E anche se non fossimo obbligati dalla demografia, sarebbe il sistema produttivo a richiederci maggiori sforzi in questa direzione. Già oggi, infatti, le imprese fanno fatica a trovare personale qualificato e specializzato. Qualunque sia, quindi, la posizione di ognuno di noi sulle politiche migratorie, questo è un dato che va tenuto in considerazione. La seconda questione riguarda invece l’orizzonte temporale degli interventi in campo di politiche per la natalità e per la famiglia. Se si guarda alle migliori pratiche di alcune esperienze locali in Italia o agli esempi esteri, si scoprono innumerevoli soluzioni di una certa efficacia: lunghi congedi parentali, risorse monetarie adeguate, orari scolastici compatibili coi tempi di lavoro, protezione delle lavoratrici, specialmente se madri, e così via. Ma tutta questa eterogeneità trova un elemento comune di successo nella costanza con cui il singolo intervento specifico viene implementato. Non ci sono cambi di prospettiva, cambi di mentalità e nemmeno cambi di comportamenti senza tale sicurezza. Che effetto potrà mai avere un’eventuale gratuità degli asili nido, per esempio, se ci fosse il dubbio che una misura del genere sia solo temporanea e soggetta al gradimento della maggioranza di governo in carica? Ma come risolvere il problema? Un modo per rendere più difficile la variabilità degli interventi in materia potrebbe essere quello di aumentare la tutela costituzionale della famiglia. Non che oggi la Costituzione non lo faccia, sia chiaro: ma i suoi riferimenti (agli articoli 29, 30, 31, 34, 36 e 37), seppur numerosi, si sono rivelati, evidentemente, inefficaci. E questo, soprattutto, perché non toccano un punto fondamentale e su cui varrebbe la pena che ognuno di noi, forze e tradizioni politiche in testa, riflettesse: la centralità del soggetto tributario. La nostra Costituzione insiste tradizionalmente sull’individuo e sulla sua capacità contributiva: ma ha ancora senso lasciare a meri correttivi del sistema fiscale, siano essi trasferimenti, assegni unici o detrazioni, il compito di realizzare l’equità? Non è forse più opportuno cambiare punto di vista e partire proprio dalla famiglia e dai figli come elementi centrali del fisco, da tutelare e promuovere? Del resto, chi sono oggi i soggetti più deboli e poveri? L’Istat lo certifica da anni: proprio i nuclei famigliari più giovani e numerosi. Chissà come si schiererebbero destra e sinistra di fronte a una rivoluzione costituzionale e tributaria di questo tipo.

17-05-2024
Autore: Paolo Balduzzi
Docente di Economia pubblica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
meridianoitalia.tv

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