di Alessandro Mauriello
Conversazione con Monica Dati, ricercatrice in Storia dell' Educazione dell' Universita' di Firenze. Lavoro e Conoscenza. I 50 anni delle 150 ore.
Nell' epoca dei sistemi complessi diviene sempre piu' centrale per il fattore competitivita' la Conoscenza, con effetti importanti su educazione e processi produttivi/ organizzativi. Analizzeremo in questo spazio l' esperienza delle 150 ore con Monica Dati, per i 50 anni di questo importante istituto di opportunita' formative per generazioni di lavoratori. Ricercatrice presso l ' Universita' di Firenze in Storia dell' Educazione, autrice del libro " Quando gli operai volevano studiare il clavicembalo. L' esperienza delle 150 ore".
Chi furono i protagonisti delle 150 ore descritti nel tuo volume “Quando gli operai volevano studiare il clavicembalo”?
Le 150 ore rappresentarono un’occasione di partecipazione senza precedenti, in cui le elaborazioni del mondo sindacale incontrarono il mondo della scuola, dell’università e del lavoro, mobilitando in maniera straordinaria e feconda operai, sindacalisti, insegnanti, intellettuali, studenti e casalinghe: furono loro i protagonisti di questo straordinario “sommovimento”.
Grazie al nuovo istituto e al contesto di forza sociale e politica del sindacato unitario, centinaia di migliaia di lavoratori ebbero modo di acquisire il diploma di scuola media, le donne poterono riflettere collettivamente sulla loro condizione di vita, i giovani laureati riuscirono a mettersi in gioco come docenti scoprendo inedite prospettive didattiche da riportare poi all’interno della scuola “del mattino” o all’università. Sono loro i soggetti a cui cerco di dare voce nel mio volume grazie soprattutto all’utilizzo di fonti orali ed autobiografiche, per ridare vita alle emozioni, ai pensieri, alle azioni e ai significati che si mobilitarono attorno a questa esperienza e che furono espressione di persone che trovarono finalmente l’occasione di potersi esprimere a pieno e di riscattarsi attraverso la cultura.
il ruolo del sindacato?
Decisivo. Fu proprio la neonata FLM a cogliere e sottolineare la concordanza fra l’incisività delle lotte degli studenti e degli operai, confidando in un nuovo rapporto scuola-fabbrica incentrato sulla lotta contro la falsa neutralità dell’organizzazione scientifica del lavoro e sulla ricomposizione del lavoro intellettuale e manuale (si pensi all’Inquadramento unico). La scuola non era una delle tante riforme sociali ma doveva assumere invece un peso privilegiato nelle iniziative sindacali; si rimproverava l’assenza di una piattaforma di mobilitazione e si ribadiva che per il movimento operaio era di fondamentale importanza mantenere aperto un fronte di lotta nella scuola, contro la selezione e la divisione che la caratterizzava.
Dopo un’aspra autocritica le organizzazioni sindacali si mostrarono pertanto in grado di riprendere la guida dei lavoratori, offrendo sostegno e risorse organizzative senza le quali probabilmente la spontaneità del movimento non avrebbe avuto l’incisione e la resistenza che invece seppe esprimere. L’FLM riuscì a divenire il soggetto forte in grado di unificare e dare spessore alle nuove rivendicazioni, un interprete capace di importanti conquiste come quella delle 150 ore, un esperimento culturale e un laboratorio di iniziative raggiunto dalle avanguardie del sindacato e gestito in prima linea dalle rappresentanze sindacali aziendali e i consigli di fabbrica.
Puoi parlarci di una delle esperienze locali di utilizzo delle 150 ore descritte nel tuo libro?
Sono molte e molte possono essere ancora indagate. Come afferma il Prof. Pietro Causarano nella prefazione, la “fisionomia molecolare e diffusa a livello territoriale” delle 150 ore non deve essere considerata un vincolo di frammentazione ma un’opportunità di indagine. Nella mia ricerca cerco di cogliere questa sollecitazione confrontandomi innanzitutto con la realtà toscana: le difficoltà di un territorio come la Garfagnana; le ricerche svolte dalla Facoltà di Magistero di Firenze sotto la direzione di Filippo Maria De Sanctis; il tema della nocività e salute nei luoghi di lavoro, indagato grazie alle storie di vita contenute in alcune antologie di scuole medie locali; le interviste svolte a sindacalisti, operai, studenti, insegnanti e casalinghe tra Lucca e Pistoia. Nell’appendice inoltre proseguo nell’intento illustrando ulteriori esperienze: il diario di Domenico Conoscenti, docente 150 ore in un carcere siciliano negli anni Ottanta; l’esperienza delle corsiste di Lea Melandri; il documentario 150 ore a Pavia, originale fonte audiovisiva realizzata nel 2005, consultata grazie alla relativa sezione locale di Auser.
Ad una vicenda tengo in particolar modo: l’esperienza del teatro operaio a Terni che vide i lavoratori dell’acciaieria portare in scena nel 1975 uno dei drammi didattici di Bertolt Brecht. Vicenda unica e preziosa come testimonia l’intervista ad uno dei suoi protagonisti, Gian Filippo Della Croce, resa possibile grazie al supporto e alla disponibilità di LiberEtà Spi Cgil. Un utilizzo assolutamente originale del nuovo istituto contrattuale che, sganciandosi dal conseguimento del diploma di terza media, acquisiva una significato ancora più profondo alla luce delle finalità del dramma didattico di Brecht: attivare la partecipazione degli operai attraverso il teatro. Un laboratorio realizzato in un clima di forte partecipazione, aggregazione ed impegno civile e un nuovo modo di intendere il momento educativo, allargandolo e socializzandolo, dando cioè all’educazione una dimensione comunitaria. Una vicenda che dimostra come l’ambiente tecnologico non sia estraneo ad aspetti umanistici indissolubilmente legati all’individuo. Ne parlo nel libro ma anche in un articolo del 2020 pubblicato sulla Rivista di Storia dell’Educazione: “150 ore e sperimentazione didattica: il caso del teatro operaio a Terni”.
Quale eredità ci lasciano le 150 ore?
A mio avviso questa sorprendente ed importante esperienza di crescita individuale e collettiva deve essere ricordata appieno e ulteriormente indagata perché consente di riflettere su dinamiche e sfide ancora assolutamente attuali, soprattutto per l’educazione degli adulti: il miglioramento della qualità educativa nei luoghi di lavoro, la capacità della formazione di essere percepita o meno come timone per un reale cambiamento di rotta, specialmente in contesti di povertà e disuguaglianza.
Non solo. In un’epoca di crisi della partecipazione civica e di perdita del significato autentico e originario della politica, segnata dalle numerose sfide avanzate dalla globalizzazione, dai temi dell’ambiente, della legalità, dell’intercultura e cittadinanza, andrebbe forse recuperata l’idea di una formazione degli adulti capace di generare un equilibrio tra cambiamento interiore e impegno per la trasformazione collettiva e sociale, rivalutando anche quella dimensione politica che ha perso fascino e rilevanza ma che integra e completa l’educazione alla persona nella sua interezza.